Il cinema di Antonio Capuano ha sempre guardato al mondo dell’infanzia come una vitale, creativa, spavalda forma di resistenza aggredita e offesa dalla violenza del mondo adulto, che sia esso espresso dalle istituzioni sociali o dalle organizzazioni criminali: in entrambi i casi non c’ è ascolto e riconoscimento, ma solo imposizione, manipolazione e abuso. In una possibile mappatura dei luoghi del disagio infantile, il contenitore più pericoloso e violento è però, talvolta, quello della famiglia, laddove il figlio viene posizionato in mezzo al campo di battaglia di una separazione, e diventa il centro nevralgico di tutte le tensioni, le frustrazioni e i rancori destinati a degenerare senza pietas e senza misura, con la portata di un’esplosione atomica, o di una barbarie. E l’incipit de L’isola di Andrea da questo punto di vista è sorprendente: i colori sono quelli di un mélo fassbinderiano, l’oscurità attraversata dagli squarci blu di un freddo, calcolato struggimento: quello di un uomo che va a trovare la moglie dalla quale si sta separando, anche se non la trova afflitta nella medesima prostrazione; avvinghiata in un abito da ninfa sensuale e danzante o da vestale del culto dell’autodeterminazione di se, lo respinge, lo allontana, lo caccia, forse. E inizia ad eseguire un ballo che sembra il prologo di una tragedia greca, della quale Capuano è cultore ed è stato regista in teatro (una memorabile Medea forgiata nelle viscere partenopee di O’Sole Mio) e traduttore al cinema (la trilogia degli Atridi trasposta nelle putride piaghe camorriste di Luna rossa). Ma se l’inizio è cosi intenso, visionario e teso, continuando a frequentare i toni dello straniamento brechtiano e della destrutturazione godardiana ( altre vicinanze e risonanze del cineasta napoletano), la sequenza successiva introduce già una distanza e apporta una riflessione; questa ex coppia ha un figlio che è il (s)oggetto del contendere e che viene inquadrato dentro una casistica di leggi, documenti, testi e studi da parte di periti psichiatrici, dove la focale sulla disfunzionalità di quel nucleo che non riesce più a comunicare se non per la mediazione della presunta neutralità di una terza persona viene progressivamente offuscata fino a svanire in una dissolvenza sul nero.

Lo stesso lavoro sul tempo, quello rubato e negato nell’interazione di coppia e quello organizzato nella quotidiana praticità della gestione di un figlio, smonta i connotati di una linearità e segue i percorsi mentali, emotivi e percettivi dei personaggi, con il pretesto della convocazione davanti alla giudice tutelare (figura ricorrente nel cinema di Capuano, presentata quasi sempre in un contingente, ufficiale distacco per linguaggio verbale e corporeo) dei personaggi. A far inceppare gli ingranaggi del meccanismo è, ancora una volta, il bambino, peraltro il primo figlio “interno” della borghesia napoletana, a parte l’Irene già adolescente de L’amore buio, raccontato da Capuano. Diverso dall’atteggiamento sfacciato, selvaggio e oppositivo degli scugnizzi Vito, Nunzio e Mario, pur ciascuno con i propri tratti specifici di spudoratezza, dolcezza e malinconia, Andrea è comunque l’antenna più sensibile, a fior di pelle e a portata di sguardo, delle nevrosi ingarbugliate dei suoi genitori. È lui che durante la simulazione di gioco richiesta dalla psicologa del tribunale per comprenderne le dinamiche famigliari sottolinea il trucco dello specchio che nasconde l’osservazione di quella pantomima. Perché questo è un altro fuoco centrale della vertigine di ossessività che strozza il progredire degli eventi e manda in tilt l’ottuso dispiegamento di procedure e relazioni scritte: l’evitamento e la repressione della necessità impellente di essere visti e presi in considerazione, non in quanto casi da studiare nel laboratorio a circuito chiuso della famiglia costituzionalmente sancita, ma come soggetti pulsionali e liberi, fuori dagli schemi del controllo e della possessività. Andrea, nella spontaneità del proprio sentimento filiale equamente diviso e conteso, sente di non appartenere a nessuno, ma la prospettiva questa volta non è solo dalla parte della sua vibrazione di meraviglia e di sgomento. Coraggiosamente Capuano offre la scena principale del confronto ad una coppia che nella sua interazione ha smarrito non solo qualsiasi residuo di romanticismo e di affetto, ma ha azzerato il minimo comune denominatore di un rispetto concepito non in quanto astratto e formale principio da rispettare; i confini delimitati e talvolta superati sono quelli tangibili e attraversabili del contatto fisico e ambientale, le forme di dipendenza e di strumentalizzazione psicologica ed emotiva, l’appropriarsi di una visione del proprio partner che logora il tarlo della paranoia e nutre la bestia del disprezzo.
La parte maschile, ancora una volta, è portatrice di un carico di frustrazioni talmente debordante da inquinare con la reattività dell’agire e la passività dell’indolenza ogni possibile combinazione, direzione, trasformazione alternativa al costrutto di una trinità socioculturale: padre, madre, figlio. Come sempre, però, non viene data la sponda facile e rassicurante della spiegazione e del giudizio, in quanto i comportamenti dell’uno e dell’altra sono filmati nella stratificazione di ambiguità, contraddizioni, spiazzamenti. Momenti di tracimante tensione raffreddati e rimandati al mittente di un’istanza anti retorica nel modo di vedere la storia di un divorzio. E, cacciata dal portone utilizzato con troppa frequenza come transito dell’abuso narrativo, l’emozione scarna e diretta, in carne e ossa, ritorna nel ritmo serrato, nella trasfigurazione iperrealista delle luci, nella presenza e nella performance degli interpreti: Vinicio Marchioni fa Guido con quella misurata dose di aggressività e remissività, la spregiudicatezza da tramontato maschio alfa e la vulnerabilità da spaurito Homme blessé; Teresa Saponangelo svetta al contrario in frammenti di sensualità e visceralità, prima di ricoprirsi del manto da signora borghese combattuta tra il materno slancio affettivo e l’ amara recriminazione muliebre. Sembra di rincontrare la giovane sposa riottosa dell’ episodio di Polvere di Napoli, che ha mantenuto quella bellezza intatta esteriormente nonostante il cuore appesantito dai segni di una disillusione sentimentale e dalla constatazione di un rapporto giunto al capolinea del tram che si chiamava desiderio. Eppure Capuano fa sopravvivere in lei una scintilla di eccedente vitalità, di alterità desiderante rispetto al dramma freddamente contenuto e analizzato. Paradossalmente è questo il modo in cui la realtà, che continua ad essere un elemento dialogante imprescindibile per l’autore de Il buco in testa, entra nel crocevia segnico della messa in scena. Non c’è la cappa della programmaticità e dell’ ineluttabilità, il citato afflato tragico è un rimando, una suggestione. Nel perimetro circoscritto e schiacciante del risentimento, c’è la possibilità per aperture sulla bellezza e sulla tenerezza, il riflesso delle relazioni che non si esauriscono per l’emissione di una sentenza né tantomeno per l’estrinsecazione di una drammaturgia. Questi personaggi esistono, a prescindere dal fatto che siano ispirati o meno a “fatti realmente accaduti”, e la tridimensionalità della loro presenza è data dal sentore di un vissuto lasciato fuori campo, immaginabile per concretezza e riconoscibilità.
L’assenza di un’altrove ne amplifica per contrasto la mancanza e l’isola di Andrea, al contrario de La guerra di Mario, non può manifestarsi neanche come prodotto dell’immaginazione o segno grafico di una dimensione sovra scritta. È L’isola che non c’è, quella che Edoardo Bennato cantava parafrasando la storia di Peter Pan, forse il primo grande racconto sull’infanzia abbandonata e violata, nelle cadenze di una ballata fiabesca. E che è possibile ritrovare nella sbigottita performance musicale di una voce stentorea, di una chitarra accennata, di un paio di occhi spalancati sulle imminenti macerie di una festa di compleanno.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 “Fuori Concorso”.
In sala dal 2 ottobre 2025.
L’isola di Andrea – Regia e sceneggiatura: Antonio Capuano; fotografia: Matteo Cocco; montaggio: Diego Liguori; interpreti: Teresa Saponangelo, Vinicio Marchioni, Andrea Migliucci; produzione: Gennaro Fasolino, Mosaicon Film, Eskimo, Indigo Film, Rai Cinema con il sostegno di MiC- Ministero Della Cultura, Direzione generale Cinema e audiovisivo Regione Campania; origine: Italia, 2025; durata: 105 minuti; distribuzione: Europictures.
