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La vita nel villaggio di Sayit è in subbuglio: gli abitanti stanno per ricevere i titoli di proprietà della terra in cui vivono, diventandone proprietari. L’unica a rimetterci è Star, un’orfana di trentotto anni, che rischia di perdere la casa e la terra perché nubile e senza legami familiari conosciuti: i legami parentali sono la clausola imprescindibile per accedere ai titoli. All’inizio la donna non se ne preoccupa più di tanto – il capo del villaggio l’ha rassicurata – continua la quotidianità di sempre, gira in motocicletta per i dintorni vendendo manufatti delle donne del villaggio. Un giorno in un negozio per turisti vede esposto un libro, The World Book of Nomads, che ritrae in copertina il viso di una bambina con un neo romboidale, esattamente identico a quello che ha lei sulla guancia. È proprio lei, lo ammette anche la donna che lavora lì che, per gentilezza e una piccola somma di denaro, le fa una fotocopia a colori della copertina. Sfogliando il libro però Star si accorge di una mano posata sulla sua spalla di bambina, unico segno di una presenza materna: sul dorso dei segni tribali riconoscibili, tre punte di un triangolo senza la base. Da quel momento Star osserva le mani delle donne del villaggio, fino a ritrovare quei segni familiari su quella di una venditrice di cibo locale. La approccia chiedendole se è sua madre ma la donna nega: molte donne della sua età hanno quell’effige, era un segno comune a molte. Star, delusa, è al punto di partenza.
Star ha un caro amico che le insegna a guidare la macchina e la porta ad una festa con occidentali di una ONG. Conversando con una inglese sembra trovare una possibilità per guadagnare la somma sufficiente a pagare la casa: deve fare un video per Internet in cui le donne dichiarano di voler indossare un reggiseno per affaticarsi di meno nelle attività giornaliere. Star fa il video con una giovane amica, firma al suo posto l’accordo con l’associazione che sostiene le imprese femminili, si aspetta in cambio del denaro che non arriva, in cambio arrivano borse cariche di reggiseni di ogni foggia e colore facendo infuriare le donne che hanno partecipato per solidarietà con lei.
Il conflitto con la comunità diventa sempre più duro, meno tollerabile, Star è sola, non si scoraggia, le prova tutte, cerca una madre, un marito, dei soldi pur mantenere i diritti sulla terra. È una donna forte, una donna sola che affronta le difficoltà senza paura, la sua battaglia diventa politica, diventa femminista senza che nemmeno se ne accorga, l’exploit consiste in una commovente scena in cui Star da sola, nella spianata davanti a casa sua, affronta a testa alta tutte le donne che l’hanno appena derubata di tutti i suoi averi e che la circondano abbigliate di mille colori.
Una sceneggiatura ben oliata fa scorrere la trama senza intoppi, con semplicità, qualche ingenuità ma senza forzature né finzioni, la brava protagonista Sarah Karei convince per pervicacia, ostinazione e determinazione, i ruoli degli stranieri espatriati residenti in Africa sono azzeccati nei limiti e nelle ipocrisie potenziali nell’essere occidentali, la fotografia regala panorami mozzafiato e scene-tripudio di colori che, dalla bellezza formale e compositiva, somigliano a quadri dipinti.
Opera prima del regista Vincho Nchogu, sviluppata con il supporto del progetto Biennale College Cinema Venezia 2024, formando una troupe eterogenea, con un cast reclutato sul campo con donne di un teatro locale itinerante, girato in un villaggio di confine tra Kenya e Tanzania. Una storia forte di identità, autodeterminazione e coraggio.
One woman one bra – Regia e sceneggiatura: Vincho Nchogu; fotografia: Muhammad Atta Ahmed; montaggio: Shannon C’Griffin; musica: Henrique Eisenmann; interpreti: Sarah Karei, Norng’aruani Kipuker, Amos Leila, Irungu Mutu, Boniface Saitabau, Davina Leonard; produzione: Kilastory; origine: Kenya /Nigeria, 2025; durata: 80 minuti.
