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Lampi nel buio: sono fari di automobili o torce di esuli erranti? Nella lunga notte di un’assopita Europa, si delinea la geometria del potere: chi può transitare e chi deve rimanere intrappolato, chi gode del diritto di passare e chi è condannato alla condizione del passante. Flebili presenze, che tentano di sfuggire alla cattura di ogni dispositivo, incluso quello cinematografico. Anche la macchina da presa veglia, in attesa di un’epifania del reale, che quando arriva non è altro che l’epifania della fuga stessa, delle sue ansie e delle sue preghiere.
Già in Tardo Agosto, il precedente cortometraggio dei giovani filmmaker Federico Cammarata e Filippo Foscarini, formatisi alla scuola palermitana di documentario del CSC, ci si inoltrava in paesaggi liminali, in quella zona grigia tra presenza e assenza, tra tutto e nulla: una lunga veduta di un paesaggio siciliano all’alba che lentamente si apriva alla visione attraverso una coltre di nebbia, o forse di fumo, quello degli incendi che minacciavano di divorare la vita circostante.
Qui è il gelido respiro della notte serba che tenta di inghiottire questi dannati della terra. Il loro unico scudo è una tenda di plastica, il loro unico conforto un fuoco improvvisato, la cui luce, finalmente, li strappa all’oscurità, li rende visibili a favore di macchina. Attorno al falò, spazio originario del mito, prende forma il racconto, non, come in Reitz, di una “Heimat”, piuttosto della sua assenza: confessioni intime di violente detenzioni, sussurrate ai propri compagni di sventura, tra cui vi è anche, esule a sua volta, lo spettatore.
In questa notte si organizza qualcosa come una sospetta trama, un nero che sfuma in noir: lunghe telefonate, perlustrazioni del territorio, piani di fuga. Davanti all’obiettivo, l’attraversamento clandestino diventa una questione di riconoscimento. Il buio cerca incessantemente di risucchiare queste figure nell’irriconoscibilità, generando un senso di spaesamento e pericolo condiviso con chi guarda, perennemente incapace di orientarsi nel racconto, trascinato nella minaccia sensoriale di una foresta popolata di suoni stranianti.
Che ne è, in questa lunga notte, della luce del sacro? Cosa resta del mito, in questa foresta che a malapena si intravede? Forse, appunto, solo questa commovente possibilità di comunanza, di prossimità all’altro, di condivisione di una confessione che, grazie al dispositivo cinematografico, si estende a noi passanti, temporaneamente resi complici. Anche noi, per un attimo, siamo senza Heimat, privi di ogni saldo punto di riferimento, in bilico sulla vertigine del niente.
Ai ritratti agiografici di santi-migranti di un cinema che vuole a tutti i costi “far luce” sulla questione migratoria, Cammarata e Foscarini oppongono un’operazione di scavo nei limiti stessi della visibilità, per interrogare non le luci della ribalta, ma i bagliori intermittenti di chi, nella lunga notte, lotta per il semplice diritto di passare. È un cinema che non presume di colmare la “crepa incolmabile” di cui scriveva Said, ma che ha il coraggio di vegliarne i margini, restituendoci nulla più che la flebile, disperata, presenza di un’esistenza che resiste, malgré la nuit, alla cancellazione.
Ore di veglia – Regia: Federico Cammarata, Filippo Foscarini; fotografia: Federico Cammarata; montaggio: Federico Cammarata, Filippo Foscarini con la consulenza di Sara Fgaier; suono: Filippo Foscarini, Gianni Pallotto; produzione: Stefano Centini e Serena Alfieri per Volos Films Italia, in co-produzione con Roberto Minervini e Dario Zonta per Cosma Film; origine: Italia, 2025; durata: 78 minuti.
