The Smashing Machine di Benny Safdie

  • Voto


Era il 15 novembre 1993 quando il critico televisivo statunitense Howard Rosenberg commentando l’UFC (Ultimate Fighting Championship) introduceva la pratica delle “arti marziali miste”. Per descrivere la nuova forma di lotta che andava prendendo corpo davanti ai suoi occhi si era limitato a un meticoloso – quanto suggestivo – elenco dei partecipanti: “[…] un lottatore di sumo, un campione di savate, un kickboxer, uno specialista di karate, un mago del jujitsu, un pugile dei pesi massimi leggeri, uno “shootfighter” e un esperto di taekwondo. C’erano tutti, tranne David “Kung Fu” Carradine”. The Smashing Machine è la storia vera di Mark Kerr, ex campione di lotta libera, pioniere di questo sport sconosciuto e selvaggio, che tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila si impone nella MMA. Vicenda che Benny Safdie scrive e dirige in solitaria (orfano di Joshua che nel frattempo si è buttato sul tennis da tavolo e arriverà in sala a dicembre con Marty supreme), macchina a mano, grana grossa, pellicola 16 mm, con Dwayne Johnson mastodontico combattente dalla chioma nera e riccissima, ed Emily Blunt (nel film: Dawn Staples) sua compagna di vita emotivamente problematica.

La relazione elettiva dei Safdie con la New Hollywood resta la stella polare anche stavolta, col solo Benny a cimentarsi in un lavoro di virtuosismo realistico che rivela – man mano che il film evolve – la sua ambizione claustrofobica. Un fatto di ingombri. Il corpo di Johnson (se possibile ancora più grande di come lo ricordassimo) non entra letteralmente nell’inquadratura. Una sua porzione è sempre fuoricampo, come le mosse che esegue sul ring e che spesso sono così repentine da sfuggire alla morsa stessa dell’inquadratura. In questo quadro che tradisce l’intero e che è costretto a inseguire le azioni piuttosto che accompagnarle, The Smashing Machine  racconta una parabola sportiva: quella di un purista della disciplina che insegue la perfezione e che sa solamente vincere. Una parabola – a lungo andare – insostenibile.

Seguire il film significa allora assistere a un interessante percorso di avvicinamento tra forma e sostanza. Le impurità, le porosità della visione lentamente accolgono le fratture di Kerr che da infallibile cecchino del ring, finisce per la prima volta KO e si scopre dipendente dagli antidolorifici. La regia accoglie le crepe emotive del campione riducendone lo spazio vitale. La sua vita sembra inscatolata tra gli ambienti casalinghi (cucina, soggiorno) in cui si consuma la relazione tossica con Dawn, le palestre polverose e asfittiche, i corridoi labirintici degli impianti sportivi. Tutto sembra rimpicciolirsi e spingere verso l’interno.

Dwayne Johnson e Emily Blunt

Per questo The Smashing Machine  è un viaggio di redenzione che scorre orizzontale e che per essere portato a termine ( cioè per poter tramutare il pianto di una sconfitta in una risata liberatoria) non usa snodi narrativi eclatanti, ma accoglie semplicemente l’evoluzione umana del suo protagonista. Una svolta complessa che passa per le stazioni del caos emotivo, del moralismo al contrario. In questo senso è ottimo il lavoro di transfert da dipendenza tra Kerr e Dawn: la rabbia e la frustrazione prodotta dalle sostanze migrano dal corpo dell’atleta a quello della compagna senza soluzione di continuità con una regia che si limita a registrare l’inversione dei ruoli senza preparare lo spettatore alla nuova condizione, ma piuttosto mettendolo di fronte al fatto compiuto.

La sensazione finale è che Benny Safdie non abbia grande interesse per i miracoli ginnici del suo gigante. Le scene di lotta sono copie carbone prive di slanci. Gli astanti si avvinghiano, si schienano a terra, si martellano di ‘ground and pound’ seguendo sempre la stessa routine. E in uno sport giovane dove le regole cambiano di torneo in torneo, tarandosi di conferenza stampa in conferenza stampa, il cuore pulsante del combattimento è fuori dal ring, nella testa degli atleti.

Oggi il “vero” Kerr ha 56 anni. Lo vediamo fare la spesa in un supermarket nella sequenza finale del film. Il corpo in prestito di Johnson non serve più. Siamo avanti vent’anni. Siamo nel presente. Un uomo pacificato. Un’immagine di rude tenerezza. Sale sul suo fuoristrada e pare accorgersi solo ora – come dentro un documentario – di essere ripreso dalla mdp. Saluta e se ne va.

In C0ncorso al Festival di Venezia (Premio per la Regia).
In sala dal 19 novembre 2025.


The Smashing Machine – Regia, sceneggiatura e montaggio: Benny Safdie; fotografia: Maceo Bishop; musica: Nala Sinephro; scenografia:  James Chinlund; interpreti: Dwayne Johnson, Emily Blunt, Ryan Bader, Bas Rutten, Oleksandr Usyk, Lyndsey Gavin, Satoshi Ishii, James Moontasri, Yoko Hamamura; produzione: Benny Safdie, Dwayne Johnson, Eli Bush, Hiram Garcia, Dany Garcia, David Koplan per Out for the Count Productions, Seven Bucks Productions, Magnetic Fields Entertainment; origine: Usa, 2025; durata: 123 minuti; distribuzione: I Wonder Pictures.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *