Asif Kapadia è un regista inglese di origine indiana che negli ultimi anni ha deliziato le platee internazionali realizzando una serie di documentari superlativi su un pugno di icone a diverso titolo maledette come Ayrton Senna, Amy Winehouse e Diego Armando Maradona; mettendo d’accordo pubblico e critica al punto da vincere un Premio Oscar nel 2016 nella categoria “Best Documentary” per Amy.
Scioccato dalla Brexit e dalle sue conseguenze, il regista londinese decide realizzare un film fantascientifico sin dal titolo, 2073, col dichiarato obiettivo di compiere un gesto politico. Lo spiega lui stesso nelle note di regia contenute nel programma della Mostra di Venezia, dove il film è stato presentato Fuori concorso: “Il film è iniziato dopo che nel Regno Unito menzogne e corruzione hanno portato alla Brexit e ho sentito il dovere di fare un film per capire perché il mondo sembrava muoversi nella direzione delle bugie, dell’autoritarismo e della violenza”.
Fedele alla linea del non-fiction movie, Kapadia decide stavolta di adoperare tuttavia un registro stilistico ibrido, ricalcando la falsariga dell’esempio di una celebre opera diretta da Chris Marker nel 1962, La Jetée, realizzata attraverso il montaggio di una serie di fotografie accompagnate da una voce narrante, che era già servito da spunto per un altro cult-movie sci-fi, L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam.
2073 esamina una serie di temi drammatici come il declino della democrazia, l’ascesa del neofascismo, il disastro climatico e il dilagare dei sistemi di sorveglianza, attraverso il montaggio di materiali di repertorio alternati con una cornice di finzione affidata alla recitazione di Samantha Morton (che si porta inevitabilmente dietro il retaggio del film che l’ha fissata iconicamente nell’immaginario collettivo, ovvero Minority Report, che Steven Spielberg trasse nel 2002 da Philip K. Dick).
In una New San Francisco distopica, ambientata all’epoca indicata dal titolo, sta Ghost (la Morton, per l’appunto), che vive tra i rottami di un mondo devastato da una catastrofe apocalittica verificatasi trentasette anni prima. Così ci ridurremo un giorno – pare dire il regista inglese, nei toni assertivi di un pamphlet – se non ci adoperiamo subito per interrompere questa deriva autolesionista. Da quel futuro remoto, infatti, partono episodici flashback che ci riportano al passato diegetico del film che è però il vero presente delle nostre vite. Qui, grazie all’uso sapiente di spezzoni di interviste e altri materiali di repertorio, il film punta l’indice contro quelle che egli ritiene essere la cause più perniciose per il declino della nostra democrazia, ovvero sostanzialmente: i rischi delle conseguenze dell’intelligenza artificiale, la pericolosità delle cosiddette autocrazie, e le insidie de nuovi billionaires della Silicon Valley (Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Elon Musk, etc.), i quali con i social network metterebbero a repentaglio una comunicazione deontologicamente corretta e scevra da fake news.
Operazione lodevole, insomma, ma tarata, forse, da un vizio di forma e da una pregiudiziale ideologica che espone la pellicola a più di qualche ragionevole dubbio critico – almeno per chi qui scrive. Il vizio di forma è dato dalla ridondanza della struttura drammaturgica: la cornice narrativa mal si sposa con i capitoli documentaristici, rendendo il racconto ipertrofico e la fruizione più faticosa del necessario (o almeno più di quanto, insomma, accadeva nelle altre precedenti opere di Kapadia). La pregiudiziale ideologica risiede invece nella partigianeria (legittima quanto si vuole ma discutibile) con cui si individuano gli obiettivi politici della polemica, che qui sono fondamentalmente Donald Trump, Vladimir Putin, l’ex Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte e il Primo ministro indiano Narendra Modi; oltre naturalmente al papà della Brexit, Nigel Farage. Ciò che rende l’intemerata tecnicamente faziosa (perché proprio questi e non altri?), inficiandone i presunti criteri di oggettività – ammesso e non concesso che si possa parlare di oggettività nel mondo delle immagini. Senza contare che ormai, nell’epoca della telematica dilagante in cui ciascuno di noi è in grado di ricevere sul proprio smartphone le devastazioni di Gaza e altri disastri in tempo reale, questo doc militante corre il rischio di arrivare in colpevole ritardo rispetto alle urgenze che intenderebbe stigmatizzare.
2073 – Regia: Asif Kapadia; sceneggiatura: Asif Kapadia, Tony Grisoni; fotografia: Bradford Young; montaggio: Chris King, Sylvie Landra; scenografia: Robin Brown; costumi: Verity May Lane; musiche: Antonio Pinto; interpreti: Samantha Morton, Naomi Ackie, Hector Hewer – Maria Ressa, Carole Cadwalladr, Rana Ayyub Ben Rhodes, Rahima Mahmut, Silkie Carlo, Cori Crider, George Monbiot, Nina Schick, Chris Smalls, Douglass Rushkof, Carmody Grey, Tristan Harris, James O’Brien, Anne Applebaum, Antony Lowenstein (come se stessi); produzione: Lafcadia Productions (Asif Kapadia, George Chignell); origine: Regno Unito, 2024; durata: 83 minuti.