Sembrava quasi impossibile trovare un modo differente per parlare di una città così visitata, e spesso abusata, da ogni forma di racconto, in particolare cinematografico e televisivo: qualsiasi prospettiva, dalla più intellettuale e culturale a quella più spettacolare e popolare, è già stata infatti utilizzata e le sue icone già scrutate, analizzate, celebrate. Carlo Luglio e Fabio Gargano, prendendo spunto dal libro Dadapolis: Caleidoscopio napoletano di Fabrizio Raimondino e Andreas Friedrich Muller, riprendono una figura in fondo non inconsueta come quella del caleidoscopio di voci, testimonianze, linguaggi (la poesia, la prosa, il documentario, la musica) e cercano di metterla in una forma che rispetti, nel paradosso, la non messa in forma, la costruzione libera, quasi jazzistica del testo di Raimondino e Muller. La voce-flusso che ci conduce in questo viaggio statico dal punto di vista delle immagini, in quanto tutti i personaggi che sono chiamati a parlare sono ripresi in inquadrature fisse vicino al porto e all’ex stabilimento dell’Italsider a Bagnoli (luoghi entrambi affacciati sul mare), ma dinamico nell’evocare e immaginare un crocevia tra passato, presente e futuro, è quella degli artisti, degli intellettuali, dei sociologi e degli urbanisti; e a suggellare la composizione degli interventi, emerge un attraversamento intergenerazionale che va dal recentemente compianto Enzo Moscato ad artisti emergenti come il collettivo di musicisti THRU Collected e Vale LP; dal confronto densamente lirico e radicato tra James Senese e Peppe Lanzetta alle riflessioni sulle partenze e i ritorni di un attore sempre più in ascesa, anche fuori dal territorio, come Lino Musella; dalle note febbrili di un cantastorie sognate e nevrotico come Tonino Taiuti a quelle dei suoi epigoni attuali.
Anche l’elemento acquatico, anzi specificamente marino, è ricorrente nella scelta di qual è il margine sul quale sporgersi per offrire una visione dove il movimento è un continuo “entrare fuori e uscire dentro”, o meglio, citando letteralmente Franco Basaglia, che parlava in quel caso della scoperta degli emarginati stigmatizzati dalla malattia mentale e rinchiusi nei manicomi, “portare chi sta dentro fuori e chi sta fuori dentro”. In fin dei conti, se si sposta il piano della lettura dalla follia a quello dell’arte, Luglio e Gargano cercano proprio di innescare un processo per cui lo spettatore si trova immerso in mezzo a una serie di atti performanti, anche con la parola, mentre la carrellata di uomini e donne intenti a performare si proietta in un altrove spazio-temporale che ha a che fare con una delle caratteristiche più peculiari e problematiche della Napol(etanità). Perenne set, palcoscenico, paesaggio da abitare e attraversare, in maniera performante appunto, come la scenografia di un rito che si rinnova, che è antico e moderno insieme. Proprio dell’aspetto moderno se ne cerca di cogliere il tentativo di un cambio di paradigma e ancor prima di direzione, ad esempio attraverso il murales del tuffatore realizzato a Pozzuoli che fa la parafrasi delle raffigurazioni della tomba del tuffatore ritrovata a Paestum: quel nuotare in un’ orizzontalità nel gigantismo dell’immagine visibile anche a una distanza non ravvicinata è una dichiarazione d’intenti; una riconquista dell’elemento più rigenerativo e d’ispirazione, visto che la lingua, che per i napoletani è segno identitario e d’appartenenza, arriva come contaminazione di fraseggi, echi, rimasticature di altre civiltà, un fatto rappresentato dalla sequenza, che ritorna, del naufrago declamante il suo stasus al tempo stesso apolide e appartenente a quel lido, generato dall’impasto delle sensibilità e delle parole dei sud del mondo.
La contraddizione, altro aspetto determinante lo spleen partenopeo, che non sappiamo quanto sia intenzionalmente ricercata e descritta dagli autori, si svela nel voler rivendicare la slabbratura sonora di un “vociare” consapevole, trasfigurato e materico insieme, la frammentarietà caleidoscopica della cornice e del quadro, con un ritorno però , quasi in cadenza di necessità, all’origine e al nucleo, a una forza che tiene insieme le istanze di un cambiamento in potenza sull’attualità e i legami con la tradizione. Anche in questo senso bisogna fare chiarezza su cosa si intende per “tradizione” in un simile contesto, visto che gli estratti delle opere recitate, a cominciare dal grande Moscato, escono fuori da una determinata collocazione temporale e posseggono la secchezza, la durezza eppure la propulsione e l’articolazione poetica di una lingua altra (sempre a lei ci si riferisce in quanto estensione e strumento attraverso cui questa Napoli destruttura e ricreata cerca di manifestarsi); lingua che diventa suono e copro nella performance di Cristina Donadio (che si svincola in maniera sensuale e viscerale-interpretando le parole di Moscato dalle viscere/antro/caverna di una memoria ancora viva- dalla più convenzionale impronta ad effetto di Gomorra la serie).
Il film intero appare dunque come un esperimento lastricato sicuramente di amore e di buone intenzioni, ma non completamente a fuoco: a parte i suddetti nomi di personalità cosi rilevanti e strabordanti di quel fecondo magma culturale- con un affondo nelle svolte avanguardistiche germinate e poi cresciute a partire dagli anni ’70 – non tutti gli interlocutori sono immediatamente riconoscibili e, fino ai titoli di coda finali, risulta un po’ complicato orientarsi su quale sia non tanto il titolo a cui parlano, in quanto non c’è una scala di importanza o di priorità degli interventi ma una multiforme e piuttosto intima sonata, ma da quale punto di vista ed esperienza. Non c’è difatti solo la ricerca di un tono visionario ed onirico, senza dubbio la chiave più convincente, l’interazione viene mostrata anche su un piano più dialogico e riflessivo; sarebbe stato quindi determinante sapere da subito le identità dei vari soggetti coinvolti, specialmente i più giovani, utilizzando magari una modalità più inventiva del solito e didascalico sottopancia (se era questo il problema). E il dialogo, seppur colto come in un flusso di impressioni e sentimenti già cominciate e ancora in itinere, risulta sfuggente , troppo parcellizzato, difficile da seguire, con alcuni segmenti in cui si ha la sensazione che certe figure neanche parlino e che siano lì a fare presenza più che testimonianza. Si alternano momenti più centrati a momenti più tirati via, e ad imporsi incisivamente è il ritratto mercuriale e fisico di una città alla perenne, estenuante ricerca di un gesto, di una parola e di uno sguardo capaci di produrre poesia (i duetti tra Senese e Lanzetta restato i momenti più autentici e spontanei). Sarebbe stato meglio allora concentrarsi verso il surrealismo Da-da nascosto sotto l’epidermide di una panoramica, piuttosto che inseguire un troppo onnicomprensivo insieme di sensi e interpretazioni.
Dedicato, tra gli altri, a Gaetano Di Vaio (1968-2024) che produce il film e che è stata una delle personalità più significative, emblematiche e vitali per il cinema napoletano degli ultimi venti anni.
Dadapolis; regia e sceneggiatura: Carlo Luglio e Fabio Gargano, tratto dal libro Dadapolis: Caleidoscopio napoletano di Fabrizio Raimondino e Andreas Friedrich Muller; fotografia: Matteo Raniero Muti; montaggio: Fabio Gargano; interpreti: Enzo Moscato, Peppe Lanzetta, James Senese, Cristina Donadio, Nello Daniele, Lino Musella, Tonino Taiuti, Vale LP, Dario Sansone, THRU Collected; produzione: Gaetano Di Vaio, Giovanna Crispino, Pietro Pizzimento per Bronx Film Movies Event in collaborazione con La scuola di cinema, fotografia, audiovisivo dell’Accademia delle Belle Arti; origine: Italia,2024; durata: 72 minuti.