Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart), in passato fantino di grande fama, dopo anni di vita spesi tra eccessi di ogni tipo e dipendenza da alcool e droghe, pare aver smarrito se stesso e il successo. A malapena in grado di reggersi in piedi e di salire in sella a un cavallo, vede la vita stringersi sempre più pericolosamente attorno a lui, così come le attenzioni del boss Sirena (Daniel Giménez Cacho) che, pur avendolo sempre protetto e amato, pretende che lui torni a vincere e dimostra di essere sempre meno paziente verso i suoi eccessi e le sue intemperanze. Anche con la fidanzata Abril (Úrsula Corberó) le cose volgono al peggio, il loro rapporto è entrato da tempo in crisi, nonostante lei ne aspetti il figlio. La corsa che potrà garantire il ritorno alla fama di Remo, togliendolo da una scomoda posizione debitoria, si trasforma però nell’ennesima débâcle per il protagonista, che ha un incidente e si risveglia dopo qualche giorno in ospedale, da cui però scappa vagando per la città come un’anima persa. Mentre il cerchio approntato attorno a lui da Sirena va chiudendosi, anche il remoto e oscuro passato del fantino torna a bussare alla porta.
“Cosa devo fare per farmi amare di nuovo?” chiede a un certo punto Remo ad Abril, prima della gara decisiva. “Devi morire e nascere di nuovo”, le risponde lei. Un’indicazione che l’uomo segue alla lettera, dando il via, da lì in avanti, a una e più metamorfosi durante tutto l’arco della pellicola. Sorta di metafora della parabola dell’uomo contemporaneo, frammentato e gassoso, alla ricerca di una propria identità, quasi si trattasse di un personaggio pirandelliano.
L’argentino Luis Ortega conferma la propria propensione verso un cinema dai toni grotteschi e surreali, per spessi tratti privi di dialoghi nei quali indugia in lunghe sequenze di ballo, molto curate dal punto di vista della resa fotografica in chiave glamour, e accompagnate da una colonna sonora che spinge sui decibel e sul beat sincopato. In modo molto simile a quanto visto ai tempi di L’Angelo del Crimine (2018), cui però accosta anche sequenze dai tempi comici decisamente riuscite.
Pur in una cerebralità piuttosto eccessiva e ostentata – forse il difetto maggiore ad esso imputabile – il film analizza, come si accennava, il problema dell’identità di ciascuno di noi, attraverso le vicende del protagonista. Che possiede un suo valore, un peso economico, come nella sequenza dei cavalli all’asta, solo fino a quando è capace di produrlo con il proprio lavoro, ad esempio. Non a caso, dopo l’incidente quasi mortale, quando Remo si reca all’interno di una farmacia cercando di pesarsi, la lancetta non si sposta minimamente dallo zero, segnalando l’inconsistenza della propria vita all’interno del ciclo sociale e produttivo.
In un certo senso pare che Ortega voglia paragonarci al cavallo acquistato dal boss Sirena in Giappone per l’ultima gara, messo a galoppare senza sosta e senza meta sopra un tapis roulant. Un ciclo continuo uguale a se stesso, come la vita. Immobile eppure in continuo movimento. E anche specchio di una illusione identitaria che cerchiamo ossessivamente di darci, cercando di congelare la nostra immagine, all’interno di questo ciclo, in un singolo frame, come nella sequenza fotografica del celebre cavallo di Edward Muybrige che è contemporaneamente fermo e in movimento, o nessuna delle due cose assieme.
Ed è dunque da questa illusione di immobilità, di identità granitica, che i protagonisti del film cercano di sfuggire, cambiando continuamente pelle, abbracciando la mobilità della vita, evitando di cristallizzarsi illusoriamente in una singola identità: sia essa morale, sociale o sessuale.
Una riflessione sulla caducità delle cose, su noi stessi, sul nostro tempo e sulla sua Argentina, passata più volte sotto la scure della bancarotta e portatrice delle disuguaglianze economiche rappresentate plasticamente dalla massiccia presenza di tanti homeless durante l’arco del film.
El Jockey (Kill the Jockey)– Regia: Luis Ortega; sceneggiatura: Luis Ortega, Rodolfo Palacios, Fabián Casas; fotografia: Timo Salminen; montaggio: Rosario Suárez, Yibrán Asuad; musiche: Sune Rose Wagner; scenografia: Julia Freid, Germán Naglieri; interpreti: Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho, Mariana Di Girolamo, Daniel Fanego, Osmar Núñez, Luis Ziembrowski; produzione: Rei Pictures, El Despacho, Infinity Hill, Exile, Warner Music Entertainment; origine: Argentina/Messico/Spagna/Danimarca/Usa, 2024; durata: 97 minuti.