Festival di Venezia (28 agosto – 7 settembre 2024): Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (Concorso)

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Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che si erano già dedicati a narrare una storia analoga con il loro ultimo lungometraggio Sicilian Ghost Story (2019), decidono di rinunciare alla scelta più ovvia, quella del “mafia-movie” di derivazione televisiva e d’impianto realistico (per intenderci il filone che unisce pur nella diversità d’approccio La piovra e Gomorra), oppure quella del “film impegno civile” di cui la storia del nostro cinema è costellata (da Franco Rosi a Pietro Germi, da Damiano Damiani a Pasquale Scimeca – cui però dice di essersi ispirato l’autore della colonna sonora, Colapesce); no, il duo nato sui banchi della Scuola Holden di Torino di fronte a un caso di cronaca politico-criminale così inverosimile decidono di optare per un registro grottesco che sfocia persino in alcuni siparietti farseschi, il più adatto secondo loro ad aderire a una vicenda che nella sua tragicità presenta tutti i caratteri dell’inverosimiglianza. Un’inverosimiglianza che rende la storia di Matteo Messina Denaro l’ultimo tassello della lunga e nefasta stagione dei misteri di cui è punteggiata la Storia della nostra Repubblica.
Capo del mandamento di Castelvetrano e della mafia nel Trapanese, Messina Denaro è stato al pari di Totò Riina e Giovanni Brusca uno dei più efferati boss mafiosi, responsabile tra l’altro del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo ucciso per impedire che il padre collaborasse cogli investigatori e successivamente disciolto nell’acido (raccontato come si diceva nel secondo lungometraggio di Grassadonia-Piazza). Ma la storia del boss di Castelvetrano (“Iddu”, per l’appunto, come veniva chiamato comunemente; oppure “U’ Siccu”, come era intitolato il libro a lui dedicato da Lario Abbate, sottotitolato significativamente “Chi protegge il latitante più pericoloso d’Europa, l’intreccio di affari e politica e il peso dei segreti di Riina e Graviano”?) non è soltanto una vicenda di sangue, è pure una storia di depistaggi e fiancheggiatori, di legami con l’imprenditoria locale, con la politica e con la massoneria; un paragrafo sintomatico del grumo vischioso che è noto come “trattativa Stato-Mafia”. Una storia indicibile viste le molteplici implicazioni, che forse solo un approccio stilistico così volutamente sopra le righe può tentar di restituire adeguatamente. Una scelta di campo netta e coraggiosa, che ha fatto storcere la bocca a più di uno spettatore della proiezione riservata alla stampa, ma che non è priva di una sua coerente legittimità.

Toni Servillo (a sinistra) e Elio Germano

Ispirandosi agli scambi epistolari tra il super-latitante e l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino, poi narrati nel libro Lettere a Svetonio scritto nel 2008 da Salvatore Mugno; Grassadonia e Piazza si immergono nella lettura dei cosiddetti “pizzini” coi quali il capo-mandamento gestiva la sua vita in clandestinità e i suoi affari, scoperchiando il “mondo tragico e ridicolo che intorno a lui volteggiava spericolatamente”, come dicono loro stessi nelle note di regia. A quel punto è chiaro che la rappresentazione che ne scaturirà non potrà che assumere i contorni foschi e paradossalmente comici di un carnevale di mostri e fantasmi, un palcoscenico teatrale su cui elevare a macabro sabba la freddezza agghiacciante della cronaca giudiziaria e della storia criminale.
Un palcoscenico su cui dunque far salire due mattatori tra i più dotati del cinema italiano, due cavalli di razza con storie e cifre differenti: nel ruolo del politico di lungo corso ispirato ad Antonino Vaccarino, Catello Palumbo, scritturano Toni Servillo, che dà vita a un personaggio squallido e amorale che l’attore di Afragola trasforma in un saltimbanco dalle cento maschere, alcune ripugnanti altre francamente ridicole. Il personaggio che dà il titolo al film è invece affidato a Elio Germano, che vi si cala con il consueto mimetismo col quale si è già trasformato più che credibilmente prima in Giacomo Leopardi (Il giovane favoloso), poi in Antonio Ligabue (Volevo solo nascondermi, 2029, regia di Giorgio Diritti); risultato qui ottenuto grazie a un impeccabile inflessione trapanese (congratulazioni al dialogue-coach) e ai Ray-Ban fumé che Messina Denaro era solito portare per celare il suo risaputo strabismo. Al loro fianco troviamo il palermitano Fausto Russo Alesi, che era stato Francesco Cossiga in Esterno notte di Marco Bellocchio e che qui però recita curiosamente in veneto interpretando Emilio Schiavon, un mefistofelico responsabile dei Servizi segreti dal profilo opaco. Eccellente il cast femminile: Daniela Marra, nel ruolo dell’agente candida e volitiva; Rita Mancuso; Barbora Bobuľová, che interpreta la donna che ospita il boss latitante fungendo pure da dattilografa dei suoi “pizzini”; Betty Pedrazzi, nei panni della moglie di Catello/Servillo, Elvira, dotata di un sarcasmo tanto cinico quanto irresistibile; e infine Antonia Truppo, che è la terribile sorella di Iddu, Stefania (qualcuno nel film dice che sembra il patriarca Messina Denaro con la parrucca). Misteriosa la presenza del pur ottimo Tommaso Ragno, in scena per due pose e una sola battuta…
In attesa delle decisioni della Giuria (il film è in Concorso), Iddu ha già vinto due importanti premi collaterali: il Premio Carlo Lizzani al miglior film italiano e il Premio Mimmo Rotella.

In sala dal 10 ottobre 2024.


IdduRegia: Fabio Grassadonia, Antonio Piazza; sceneggiatura: Fabio Grassadonia, Antonio Piazza; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Paola Freddi; scenografia: Gaspare De Pascali; costumi: Andrea Cavalletto; musiche: Colapesce; interpreti: Toni Servillo, Elio Germano, Daniela Marra, Barbora Bobulova, Giuseppe Tantillo, Fausto Russo Alesi, Antonia Truppo, Tommaso Ragno, Betti Pedrazzi, Filippo Luna, Rosario Palazzolo, Roberto De Francesco; produzione: Indigo Film (Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori, Viola Prestieri) con Rai Cinema, Les Films du Losange (Alexis Dantec); origine: Italia/Francia, 2024; durata: 122 minuti; distribuzione: Medusa.

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