Tratto da un romanzo omonimo scritto dallo stesso Pupi Avati, L’orto americano è stato scelto da Alberto Barbera come film di chiusura della 81° Mostra del cinema di Venezia, secondo alcuni maliziosi commentatori poiché il regista bolognese sarebbe “in quota” centro-destra, avendo sostituito a loro parere nel ruolo di “intellettuale organico” di quel versante politico il compianto Pasquale Squitieri. Lo si sottolinea per esprimere anche su queste colonne la personale una certa disistima verso alcune derive della pubblicistica contemporanea che ha ridotto la politica a gossip, il gossip a propaganda e la propaganda a mistificazione. A prescindere dalla qualità del suo cinema, e dalle sue simpatie politiche (Christian De Sica, da lui diretto in Bordella, una volta disse: “Non gli perdonano il fatto di andare a messa”), Pupi Avati è un uomo di una umanità straordinaria, di buona empatia e di una umiltà non comune in un mondo dominato dal narcisismo; che ha sempre riversato queste sue qualità nel suo lavoro e che pertanto merita di essere rispettato, anche se il frutto di questo lavoro risulti come in questo caso abbastanza sfocato ed esangue.
L’orto americano è una perfetta summa del cinema di Avati, includendo mescolandole le due matrici ispiratrici del cinema – ma anche della letteratura – che ha realizzato finora: la commedia sentimentale e il cosiddetto “gotico padano”. In particolar modo quest’ultimo filone sembrerebbe costituire la radice più profonda della sensibilità del regista emiliano, il quale ci è tornato di recente, nel 2019, con l’apprezzabile Il signor Diavolo dopo le sue primissime prove (Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati) da lui stesso definiti due film “orgogliosamente provinciali”; e soprattutto dopo La casa dalle finestre che ridono che probabilmente resta a tutt’oggi il suo capolavoro.
Qui si narra la storia di un giovane psicopatico che, nella Bologna dell’immediato dopoguerra, si innamora di una infermiera ausiliaria americana prima di imbattersi in un macabro segreto che la riguarda nel lontano Midwest e che coinvolge anche una ancor più torbida vicenda di omicidi seriali nelle brume del delta del Po. Una storia dagli echi autobiografici poiché a parlare con i morti non è soltanto il protagonista del suo film ma lo stesso Avati (come ha confessato egli stesso in una conferenza stampa in cui ha dispensato la sua consueta, divertita, bonomia), il quale per prendere sonno suole chiamare a raccolta i tanti cari estinti che si sono già accomiatati da lui.
Tra ricerche bibliografiche da thriller in stile Il nome della Rosa (sono menzionate persino le Ecclesiaste, oltre ai poeti greci Bacchilide e Pindaro) e scabrose mutilazioni di genitali femminili, il regista di Regalo di Natale racconta per la prima volta nella sua carriera il dopoguerra italiano (“Quella stagione della Storia del nostro Paese – suggerisce lo stesso regista – ancora intrisa dall’orrendo effluvio della paura e della fame in uno scenario di assoluta devastazione”), mostrando accanto agli orrori della Storia altri mostri che lambiscono il soprannaturale e le intermittenze della mente. Lo fa affidandosi a un evocativo bianco e nero curato dal modenese Cesare Bastelli, che dirige la fotografia dei suoi film dai tempi di Magnificat, restituendo adeguatamente la desolazione raccontata dal film.
Nel caso di Avati la scelta del cast non è mai un dato trascurabile, avendo egli come è noto sdoganato al cinema serio Diego Abatantuono fino ad allora relegato ai suoi personaggi dialettali, oppure elevato a rango di protagonista Carlo Delle Piane che precedenza era stato per lo più un caratterista. Qui nel ruolo del protagonista troviamo il Filippo Scotti di E’ stata la mano di Dio (che si disimpegna in un inglese irreprensibile), Chiara Caselli ormai presenza fissa nei film di Avati, un’icona del “free cinema” inglese come Rita Tushingham e infine Nicola Nocella (che proprio Avati portò all’acme della sua recitazione grazie alla interpretazione ne Il figlio più piccolo, 2010), che compare brevemente ma in modo significativo nella sequenza finale ambientata nell’ospedale psichiatrico; nel quale convengono, trovando una soluzione possibile, i tanti fili che la trama ha sin qui intrecciato di qua e là dell’Oceano, tra il logico e l’irrazionale.
L’orto americano – Regia: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati, Tommaso Avati; fotografia: Cesare Bastelli; montaggio: Ivan Zuccon; scenografia: Biagio Fersini; costumi: Beatrice Giannini; musiche: Stefano Arnaldi; interpreti: Filippo Scotti, Rita Tushingham, Mildred Gustaffsson, Roberto De Francesco, Chiara Caselli, Armando De Ceccon, Morena Gentile, Romano Reggiani, Nicola Nocella, Massimo Bonetti; produzione: DueA Film (Antonio Avati), Minerva Pictures (Santo Versace, Gianluca Curti), Rai Cinema; origine: Italia, 2024; durata: 107 minuti; distribuzione: 01 Distribution