Una creatura fangosa emerge dal profondo di un lago, minacciando una giovane fanciulla. Non è il mostro della laguna nera, ma un volto ben più familiare, seppur altrettanto sinistro: la figura paterna. Non c’è modo di fuggire dal mostro nell’isola di Marajó. Questi sorveglia i tuoi movimenti, anche quelli più intimi, controlla le tue idee. Una volta colonizzato le acque, depreda anche la terra: così la piccola raccoglitrice di bacche deve anch’essa impugnare il fucile per andare a caccia. Sono in fondo queste le due scene che preparano il terreno alla monumentale immagine finale che sorregge l’intero film. Un’immagine, si potrebbe dire, giusta, fondata sul più classico ribaltamento dei rapporti di potere. Peccato che il resto del film latiti di cura nella destrutturazione di un immaginario, facendosi incantare dall’apparente neutralità dell’obiettivo cinematografico.
Non che tale ribaltamento non sia anticipato da complicazioni nei rapporti tra i generi: in questo spicchio della foresta amazzonica le donne sembrano accondiscendenti rispetto al potere che le soffoca, anche nelle loro utopie di liberazione. La tredicenne Marcielle fissa il santino della sua “mana” (sorella) che ha avuto la fortuna di trovarsi marito e fuggire dall’isola. Nel tentativo di seguire le sue orme, si prostituisce su una chiatta con un uomo meridionale che gli ha promesso di portarla via. In fondo, il mondo “là fuori” non è poi così diverso dalla sua isola. “Tielle” è prima di tutto intrappolata da una cultura: la perpetua idealizzazione. Le istituzioni in cui vive sembrano fondarsi solo su parole astratte, gli adulti sembrano tutti predicatori. Ma non più concreti sono i feticci mediali che dovrebbero supplementare a tali carenze – drammoni adolescenziali, rossetto e discoteca – i quali si rivelano, in realtà, ancore di salvezza del tutto inefficaci.
Eppure, non assistiamo al meccanismo d’implementazione di uno specifico potere, bensì a un campionario, pure piuttosto vago, di pratiche generalizzate: i riti in chiesa, le recite scolastiche, i pranzi in famiglia. La camera sembra più interessata a rimanere feticisticamente a tre centimetri dalla protagonista piuttosto che a scandagliare le proprie istituzioni. Non molto diversi da quei palliativi consumistici risultano allora i momenti di iniziativa femminile destinati al fallimento (la danza, la pesca, la caccia, la fuga), relegati a sostenere l’idealizzata visione finale. L’ambizione universalizzante del messaggio finale (l’esortazione alla denuncia di abusi di genere presenti in tutti i popoli) costringe il film a incastrarsi anch’esso in un rapporto feticistico: come Marcielle cerca di farsi passare per sua sorella attraverso un documento d’identità, così l’opera di Marianna Brennand cerca di risolvere qualsiasi tensione in un’immagine finale liberatrice, senza approfondire mai invece i meccanismi profondi della cultura dell’idealizzazione, senza liberarsi prima di tutto delle proprie idealizzazioni filmiche.
Manas – regia: Marianna Brennand; sceneggiatura: Felipe Sholl, Marcelo Grabowsky, Marianna Brennand, Antonia Pellegrino, Camila Agustini, Carolina Benevides; fotografia: Pierre de Kerchove; montaggio: Isabela Monteiro de Castro; suono: Valeria Ferro, Miriam Biderman, Ricardo Reis, Armando Torres Jr.; scenografia: Marcos Pedroso; costumi: Kika Lopes; interpreti: Jamilli Correa, Fátima Macedo, Rômulo Braga, Dira Paes, Emily Pantoja, Samira Eloá, Gabriel Rodrigues, Enzo Maia; produzione: Carolina Benevides e Marianna Brennand per Inquietude, Luis Galvão Telles per Fado Filmes, Beto Gauss e Francesco Civita per Pródigo, Globo Filmes, Canal Brasil; origine: Brasile/Portogallo, 2024; durata: 101 minuti.