Desert Suite di Fabrizio Ferraro (Giornate degli autori – Notti Veneziane)

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La transizione fatta di partenze e ritorni attraverso il paesaggio urbano desertificato e quello rurale inaridito, il passaggio dall’abisso reiterato di una morte ovattata senza suono e senza fremito, al rifiuto aspro di una terra infeconda che respinge, allontana e mette in atto un processo di  estraneità e scarnificazione, sembra essere il movimento intorno a cui ruota il radicale e contemporaneamente astratto Desert Suite di Fabrizio Ferraro. Dopo l’apertura con immagini di archivio che rimandano alla costruzione di fredde metropoli d’acciaio in risonanza con quelle della messa a punto di macchinari per un evento bellico,  la prima sequenza trasmette una sensazione di rarefazione e impalpabilità nel presentare dentro la cornice di un digitale senza colori, più che in bianco e nero, un uomo e una donna, entrambi molto giovani ed entrambi abbandonati tra i fumi stordenti e soporiferi di uno spinello, tra l’assonnato e l’indolente (lei più di lui a dire il vero); mentre l’unico controcampo possibile è raccontato nell’apocalisse di guerre, distruzioni, catastrofi naturali trasmesse dalla tv. Chi sono questi due individui che si spalleggiano e galleggiano insieme nel pessimismo cosmico del micro universo domestico di un divano? (ma questa ambientazione verrà definita meglio successivamente, quando si rivelerà il senso e la ciclicità rituale dell’azione compiuta dal ragazzo).

Inizialmente la storia che ascoltiamo e di cui siamo chiamati ad acquisire una pur parziale conoscenza in una prossimità di eventi e non in un vero e proprio passato (anche perché il processo di identificazione è saltato per aria insieme alle bombe che esplodono in giro per la terra) è quella di lui: qualcuno che non ha nome ma è una sorta di entità in continua e inquieta ricerca di uno spazio-tempo nel quale stare, seppur in una durata limitata e con un scopo. Quando lo incontriamo è già stato peregrino tra le vigne sul confine tra l’Italia e la Francia, e ha raccolto, fuor di metafora, in quella scelta dettata, probabilmente da una necessità di fuga o di evasione, un sentimento di malinconia, abbandono, fallimento. Lo sguardo di Ferraro su questa parte del racconto, spogliato di qualsiasi costruzione narrativa – si pone come maggiormente documentaristico nell’impostazione da pedinamento dell’attività dei viticoltori –  con la quasi completa assenza di dialogo e niente musica ma  possiede già l’alone di indeterminatezza e di sfaldamento rispetto a mostrare una terra che è in primis un territorio che ha ceduto il passo, la sostanza, la ricchezza delle sue coltivazioni all’annunciata catastrofe. Il paesaggio viene privato di qualsiasi connotazione descrittiva o evocativa, ed è quasi l’anticamera di un inferno opaco e spento, il contenitore svuotato di senso che spinge il ragazzo verso la direzione della sua “missione”.

“Qui non c’è più niente. È finita”, sostiene con la voce nella doppiezza della sua lingua italo-francese dopo l’ennesima escursion infruttuosa e desolante tra i terreni e i residuali grappoli d’uva; e lo stacco successivo lo vede immergersi nelle strade dei quartieri di Bruxelles, la capitale europea, scelta forse anche per la sua centralità di polo politico e istituzionale, nella quale spingere fino in fondo il mortale sconforto appartenente non tanto, solipsisticamente, alla propria esistenza di viaggiatore senza patria quanto ad un’ umanità  che non è ormai in grado di abitare nessuna casa. Rovesciando il segno dell’oltraggioso e gioioso entusiasmo del Ninetto pasoliniano de La sequenza del fiore di carta e dell’Angelo messaggero in Teorema (sempre interpretati dal volto arcaico misto di innocenza e grevezza di Ninetto Davoli), questo angelo sterminatore (?), ugualmente “riccetto”, si presenta come taciturno e chiuso nel suo spostarsi, salvifico ed accudente nell’ approcciare e accogliere la ragazza interrotta e sperduta appena uscita da un rave, eppure sentenzioso nel progetto che intende sotterraneamente applicare con una dolce imposizione dopata e la secca pietas di un gesto.

Il progredire dell’incontro e della relazione è condotto con un’impercettibile tensione per cui l’apparente banalità dei dialoghi acquista uno spessore sospeso, fluttuante, straniante, ancorato ai terribili input audiovisivi che provengono dallo schermo e che il ragazzo utilizza in quanto presagio, o magari trasfigurazione di quella dimensione di orrore e morte dalla comunità umana alla proprietà privata del privato cittadino. Il lussuoso e panoramico loft abitato dalla ragazza è un non luogo situato alla fine del mondo, che stride con una precedente sequenza in cui lei rivendica il proprio bisogno di trovare angoli, sprazzi, attimi di bellezza della città a cui poter appartenere. Non è necessario per comprendere la portata della visione di Ferraro e non sarebbe corretto nei confronti dell’emozione/tensione, interna e sfumata ma comunque presente, che attraversa il suo film, svelare esplicitamente qual è l’azione compiuta a un certo punto dal  ragazzo (una svolta comunque spiazzante ); seppur strettamente collegato alla progressiva invasione di un immaginario a tratti ossessivo, autistico (il paio di cuffie che porta con sé, la danza silenziata del finale) e indolente da parte di suggestioni e percezioni minacciose e terminali, quel atto resta un mistero nelle sue più recondite motivazioni. A volte la negazione di un accesso,  e non parliamo di una didascalica spiegazione e del tracciare profili psicologici, produce un distanziamento che rasenta il disinteresse, il vuoto esistenziale, morale, perfino materiale – perché la suite in questione è piena anche di tanto spazio vuoto e non vissuto se non sporadicamente e occasionalmente – rischia di spingere fuori  da una connessione che non risiede in un sentiero spianato e comodo, questo è chiaro, ma si sbilancia talvolta su dei tratti elitari, scostanti e piuttosto velati. Non ci sono quegli elementi umani/non umani processualmente osservati e riprodotti dalla forza plasmatrice della lingua cinema come in Huillet/Straub, a cui si pensa per un rigore, una coerenza, un’ essenzialità dei mezzi elevata a compiutezza espressiva; e c’è meno propulsione e intensità che in certe opere di Godard dove il rendez-vous uomo/donna è sempre anche l’estrinsecazione di una questione politica, estetica ed etica. Ma sbagliamo forse la direzione in cui cercare la radicalità del deserto espanso di Ferraro da vedersi, fuori da ogni consolatoria prospettiva trascendente o metafisica, nell’occhio in procinto di chiudersi  di una soggettiva libera indiretta; quel procedimento traslato dal linguaggio narrativo a quello cinematografico, sempre da Pasolini, per cui l’autore raccoglie ed esprime  nel suo sguardo gli umori, le istanze e  lo stato psico-emotivo dei propri personaggi e li veicola nelle immagini che crea.

E che se la visione è sconfortante e annichilita,  persiste comunque la pulsione di un’attrazione un attimo prima della tracotanza del delirio.

Proiezione alla presenza dell’autore mercoledì 25 settembre ore 21.30 al Cinema Farnese di Roma (manifestazione “Venezia a Roma”)


Desert Suite Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Fabrizio Ferraro; musica: Emiliano Marrocchi; interpreti: Giammaria D’Alessandro, Rachele Roggi, Cécile Delamere, Francesco Pesci, Manuel Di Vecchi Staraz, Ullamp, Marco Fellini, Antonio Sinisi, Arnaud Theiry, Robin Celayes; produttori: Ottavia Fragnito, Fabrizio Ferraro, Fabio Parente per Boudu e Limen Shine; origine: Italia, 2024; durata: 85 minuti.

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