
Fatto questo primo scarto di lato, inizia una sarabanda tumultuosa fatta di amore e sangue, di ebrezza e vertigine, di sesso e di morte. Uscendo quasi per caso (la visita a Palermo non era stata programmata) dalla comfort zone del suo bozzolo rassicurante, Sophie decide finalmente di vivere rischiando perciò di morire.
Muccino: “Le manca la vita che non ha veramente mai vissuto, perciò continua a fare delle scelte consapevolmente rischiose. Vuole vivere questa ultima notte di vacanza e di passione in modo definitivo, e per farlo sarebbe pronta a morire”
Il regista de L’ultimo bacio, che sa tenere in mano la macchina da presa come pochi in Italia (a proposito, qui si nota per la prima volta l’uso di un espediente linguistico piuttosto originale: durante le scene di inseguimento la cinepresa del regista sta incollata ai quattro protagonisti dentro all’abitacolo, essendo manovrata da un tecnico sul tettuccio dell’automobile, una sorta di variante “on the road” ai suoi celeberrimi piani-sequenza “travelling”), ha dichiarato di essersi ispirato ai grandi classici del cinema statunitense degli anni ’80 come Fuori orario di Martin Scorsese (ma io aggiungerei anche il coevo Tutto in una notte di John Landis); tuttavia quel che conta di Fino alla fine (il titolo inglese è, più appropriatamente, Here now, ovvero “qui e ora”) è la vita che esso evoca prepotentemente (come si è tentato di argomentare). Il cinema stavolta viene dopo, ma se lo firma Muccino arriva sempre forte e chiaro. E con la C maiuscola.
PERCHÉ NO di Giovanni Spagnoletti **(*) stelle
Aggiungo queste righe al pezzo positivo sopra di Alessio Accardo, anche in considerazione del fatto che all’uscita dalla visione di Fino alla fine, presentato in anteprima nelle giornate della Festa di Roma (sezione Grand Public), ho incontrato un amico, direttore di un Festival nel Molise, di parere diametralmente opposto al mio che ha affermato – nel mentre io scuotevo la testa esprimendo un’impressione negativa sul film – “ma scusami Giovanni, Gabriele Muccino gira da Dio, chi è più bravo di lui in Italia, cosa altro vuoi?” Al che è seguito un lungo simpatico battibecco in merito. Infatti, proprio a tale proposito, si tocca una questione centrale (ed irrisolta) per chi scrive da più o meno lungo tempo di cinema: basta l’abilità e l’occhio di chi dirige a fare un buon film? Mia personale risposta: “ni”, sì e no insieme, forse, ma alla fine propendo per il no.
Ciò premesso veniamo al dunque. Romano, classe 1967, il nostro è qui giunto alla sua tredicesima opera cinematografica e, come già ricordava sopra Accardo, ha vissuto una importante trasferta oltreoceano (il che non è certo cosa da poco e da tutti nel nostro paese). L’esperienza internazionale, dunque, non gli manca e neanche la capacità di realizzare con successo dei film importanti (e/o controversi) come ha più volte dimostrato nella sua carriera. Questo, poi, come ha dichiarato lui stesso: “è stato realizzato in due versioni distinte e indipendenti: una in inglese e una in italiano. Per non perdere il contrasto e il dialogo tra due mondi che si incontrano, ogni scena è stata girata in due lingue”.
Gabriele Muccino non è, però, come il suo quasi coetaneo Paolo Sorrentino (altro autore, spesso e volentieri, discusso come dimostra, anche sulle nostre pagine, il suo ultimo Parthenope), un filmmaker per il quale si è coniato un termine ad hoc per definirne, nel bene e nel male, uno stile inconfondibile, tutto suo, persino manieristico. Il che, tradotto in banali soldoni, significa anche, nel nostro caso, che l’abilità inventiva si deve accompagnare ad una storia che tocchi e/o commuova lo spettatore al di là della capacità tecnica, del virtuosismo visivo con cui essa è narrata.
Per Fino alla fine, come per il precedente Gli anni più belli (2020), si tratta di un lontano remake, questa volta di un film non così celebre come nel primo caso del capolavoro di Ettore di Scola C’eravamo tanto amati (1974), bensì di una ben più dimenticabile opera tedesca, Victoria di Sebastian Schipper, passata in Concorso alla Berlinale del 2015 e fugacemente uscita in Italia due anni dopo. Tuttavia, c’è una certa stretta somiglianza tra il lavoro di Schipper e quello di Muccino non soltanto a livello di trama e cioè una storia di base molto simile dove, mutata la location da Berlino a Palermo, si narra di una straniera che passa una nottata/giornata assolutamente memorabile con un gruppo di balordi, tra cui, con uno, ha avuto una sorta di subitaneo colpo di fulmine amoroso. La particolarità, però, di Victoria stava nel fatto che era tutto girata in un infinito, pirotecnico piano-sequenza di 140 minuti, tanto che il direttore della fotografia, il norvegese Sturla Brandth Grøvlen, aveva vinto l’Orso d’argento nella categoria “Outstanding Artistic Achievement” per la migliore fotografia. Ammirata però la prova e l’esecuzione tecnica, il film a nostro ricordo (mio e di chi scrisse la recensione all’epoca) non era affatto memorabile, per non dire di peggio.

Fino alla fine – Regia: Gabriele Muccino; soggetto e sceneggiatura: Gabriele Muccino, Paolo Costella; fotografia: Fabio Zamabion; montaggio: Claudio Di Mauro; scenografia: Massimiliano Sturiale; costumi: Angelica Russo; musiche: Paolo Buonvino; interpreti: Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy, Enrico Inserra, Francesco Garilli; produzione: Lotus Production (Leone Film Group) con Rai Cinema in associazione con Adler e con Ela Film; origine: Italia, 2024; durata: 117 minuti; distribuzione: 01 Distribution. Foto di Valentina Gioioso
