Frammenti di luce di Rúnar Rúnarsson

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Nel saggio del 1916 Trauer und Melancholie (Lutto e malinconia) Freud distingueva due modi per affrontare la morte di una persona cara: da un lato la cosiddetta Trauerarbeit (ovvero il lavoro sul lutto, l’elaborazione del lutto) che permette all’individuo di liberarsi da quella condizione dolorosa grazie anche al trascorrere del tempo e che, idealmente, potrebbe tradursi in una vera e propria ricostruzione del proprio io; dall’altro la malinconia dove una persona  si ritrova a soffrire per una perdita che non è in grado di comprendere o identificare appieno, e quindi questo processo si limita ad avvenire nell’inconscio senza mai giungere a una piena liberazione. L’elaborazione del lutto è sana, secondo Freud, la malinconia non lo è, lasciando pesanti strascichi.

Di lutto, proprio di lutto tratta il quinto lungometraggio di Rúnar Rúnarsson, regista e sceneggiatore islandese, intitolato Frammenti di luce, in originale Ljósbrot, ovvero rifrazione, titolo internazionale When The Light Breaks. Senonché in questo caso le circostanze nelle quali si trova la protagonista Una (Elin Hall) non permettono proprio l’elaborazione del lutto, la obbligano anzi a nasconderlo e paradossalmente a consolare chi quel lutto lo sta provando come e quanto lei, pur ignorando del tutto che cosa fosse accaduto fra la protagonista e il ragazzo defunto, investito da una vampata di fuoco all’uscita da un tunnel, mentre guidava una macchina.

Elin Hall (a destra) e Katla Njálsdóttir

Ma torniamo all’inizio: Una e Diddi (Baldur Einarsson) decidono dopo una romantica passeggiata in riva al mare, con la radente luce del tramonto, e dopo aver fatto l’amore, di uscire allo scoperto, di venire alla luce (volendo usare la metafora del titolo) di dichiararsi al mondo. Ma c’è un piccolo grande ostacolo da superare: Diddi ha una fidanzata Klara (Katla Njálsdóttir) e deve andare a dirglielo, a confessarsi. Prende la macchina e appunto accade quel che accade. Fine della prima parte del film, sono trascorsi poco meno di dieci minuti dall’inizio. Soltanto adesso compare il titolo. Dopodiché comincia la seconda lunga, straziante sequenza del film: lo spettatore sa, ma Una non ancora, ed è quindi lo spettatore che, per così dire, in modo preventivo viene ad essere  incaricato di produrre quell’empatia che gli altri personaggi del film (componenti tutti, un po’ alternativi, di una band di cui facevano parte sia Una che Diddi) non sapranno testimoniarle, per il semplice fatto che non sono a conoscenza (tranne uno) della relazione fra Una e Diddi. Fino ad arrivare al momento dell’incontro fra le due ragazze, un incontro fatto di lunghi silenzi e grandi abbracci, con la tenerezza che, nel caso di Una, sembra proprio essere una, per molti improbabile ma nel film perfettamente plausibile, forma di quella che un tempo si sarebbe chiamata sorellanza, non priva addirittura di una sottile vena erotica; d’altra parte quando Clara dichiara a Una che le era stato detto (o comunque che lei immaginava) fosse lesbica, lei con un certo sussiego dichiara di essere pansessuale, aggiungendo che il suo ultimo compagno era per l’appunto stato un uomo, guarda caso quello di cui (non) stavano parlando.

La sequenza finale che non rivelerò, presenta comunque una forte somiglianza con quella iniziale. Difficile dire molto di più su questo film estremamente delicato, supportato dalla musica dello straordinario Jóhann Jóhansson, dove, come inevitabilmente accade in ogni film islandese, la luce, il paesaggio e il mare svolgono un ruolo importante, la sceneggiatura è alquanto minimalista: contano gli sguardi, gli abbracci e i silenzi, oltreché – anche questa caratteristica è tipica di molti film nordici – tanto, tanto alcol, stavolta anche per affogarvi il dolore.

In un film dove non solo la sceneggiatura ma anche la regia è piuttosto improntata alla riduzione, colpisce la breve scena in cui le due ragazze, una accanto all’altra, si guardano nello specchio di una vetrina e i loro volti si sovrappongono, fino a diventare uno soltanto – una scena che non può non ricordarne una analoga, quella sì di autentica sorellanza, quando i volti di Juliane e Marianne, le due sorelle di Anni di piombo, si sovrappongono attraverso il vetro che le separa, nel carcere di massima sicurezza. Pensate sono trascorsi 44 anni da quando Margarethe von Trotta vinse con quel film il Leone d’oro a Venezia. Rúnarsson, invece, ha vinto più di un anno fa, il primo premio nella, comunque importante, sezione “Un Certain Regard” del Festival di Cannes 2024. E adesso il film arriva in Italia, speriamo che a Ferragosto qualcuno se ne accorga.

In sala dal 14 agosto 2025.


Frammenti di luce (Ljósbrot) – Regia e sceneggiatura: Rúnar Rúnarsson; fotografia: Sophia Olsson; montaggio: Andri Steinn Guðjónsson; interpreti: Elin Hall, Baldur Einarsson, Mikael Kaaber, Katla Njálsdóttir, Ágúst Wigum, Gunnar Hrafn Kristjánsson; produzione: Compass Films, Halibut, Revolver Amsterdam, MP Film Production, Eaux Vives Productions, Jour2Fête; origine: Islanda/Paesi Bassi/Croazia/Francia, 2024; durata: 80 minuti; distribuzione: Movies Inspired.

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