21° Asian Film Festival (Roma 10-17 aprile 2024): Hokage (Shadow of fire ) di Shin’ya Tsukamoto (Film d’apertura)

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Non ci sono né passaggi né paesaggi intermedi in Hokage (Shadow of fire), l’ultima opera che  Shin’ya Tsukamoto ha presentato in questi giorni alla Mostra del Cinema (in Orizzonti , quando avrebbe meritato il concorso ufficiale): si è subito in itinere dentro lo spazio e il movimento, nell’avvicinarsi dello sguardo di un oscuro(?) scrutatore alla  figura di una giovane donna che dorme, sdraiata di fianco e di spalle all’interno di una locanda, peraltro nella stessa identica posizione nella quale ricordiamo il cadavere-corpo sognante di Diane/Betty in Mulholland Drive: è un’inquadratura che nei primi minuti viene reiterata come in un loop sonnambulo; un elemento che, a prescindere da qualsiasi spiegazione o interpretazione, visto che si tratta di un’esperienza sensorialmente percepita un lunghissimo frame prima di poter essere razionalmente elaborata,  ci trasporta nel prolifico campo di attrazioni e visioni oniriche, ma senza l’eccesso dimostrativo di sovrastrutture simboliche ed iconiche.

C’ è anzi  un denudamento in questo processo di materializzazione del fantasmatico e dell’ ignoto, un’ essenzialità di luoghi e presenze sui quali è possibile sentire il peso specifico e tangibile di una fisicità e di una materialità e insieme, prosciugati dalla rigidità determinista di un impianto realistico, la fragile e impalpabile disgregazione di un’ immaginario che per i giapponesi è prima di tutto post atomico.

Tsukamoto ha sempre lavorato sull’interno e l’esterno dei corpi penetrati e squarciati nelle sembianze di organismi ontologicamente già predisposti al contagio, senza i confini di una struttura esistenza- realtà-rappresentazione che crea cornici dentro cornici, reprimendo e non allargando la possibilità di farsi altro dalla sua forma originaria .

I suoi Tetsuo cinematografici sono ad esempio delle creature che slabbrano e deturpano i margini  delle inquadrature e delle identità e vanno a toccarsi al di fuori con un qualcosa di in-forme che ne alimenta la pulsione ciclicamente distruttiva e generativa. In Hokage il nucleo dicotomico della sua poetica (potremmo aggiungere organico/meccanico, maschile/femminile, repulsione/desiderio), che si apre poi come un vertigine polisemantica di incarnazioni sincretiche di vari materiali, decentra la messa in scena nella continua interconnessione di campi e fuori campi. La donna che abita la locanda, luogo marginale, regressivo e privativo fin dalla negazione di una vista ( no la vediamo mai affacciarsi dalla finestra o dalla porta) , si prostituisce in maniera remissiva e distaccata per spostare sul proprio corpo il dolore insostenibile di un marito e di un figlio morti a causa della guerra ( non c’è nessuna indicazione storica o temporale, ma è chiaro che il grande, esteso trauma, l’ombra di fuoco,  è quello della bomba) e subisce, apparentemente passiva, le intrusioni nel suo spazio profano e devozionale ( ha costruito un piccolo altare, sua personale parafrasi di una truffautiana camera verde, per i cari dipartiti) di un soldato sfollato che ha bisogno di sentire appartenenza e cura, e poi soprattutto di un bambino sperduto, con i segni esposti  sulla pelle di una casa distrutta dalle fiamme della deflagrazione nucleare, che per un attimo le restituisce un sentore di umanità e di calore che non brucia e riduce in cenere, ma tiene in vita la tenue luce della possibilità di fiducia e intimità, oltre la paranoia psicotica innestata a lungo termine dai fuochi delle esplosioni .

E dopo alcune delle immagini più emozionanti e tenere che abbiamo visto emergere da una trama cosi fitta e tenebrosa, come quella in cui la donna cuce al bambino un vestito di stoffa ricomponendone le varie parti (metafora sottile e poetica su come qualsiasi ricostruzione non può che ripartire dai corpi, dalle loro membra dilaniate e separate). E c’è il tempo del gioco, che ribalta il qui ed ora della sopravvivenza in creatività, la carenza di cibo in abbondanza di fantasia, il culto immobilista della solitudine disperata nella laica e condivisa ritualità di un gesto di gioia e partecipazione.

Ma si tratta di un momento di sospensione ( forse anch’esso onirico o comunque immaginato?) e Tsukamoto, dopo avercene fatto letteralmente assaporare il dolce gusto (struggenti le scene della preparazione e consumazione delle pietanze) ci conduce, sempre tramite gli occhi illuminati e sgomenti del piccolo  protagonista( perché l’ infanzia rimane l’unica età della vita a poter oscillare tra i territori confinanti dell’amorevole pietas e dell’arida crudeltà), nel campo fuori di un mondo di residui e derelitti in carne e ossa, ridotti all’automatismo prodotto non dall’innesto extra umano di una macchina high tech, ma da un permanente e collettivo stato psicotico  ; un ex militare ossessionato dagli incubi dei delitti e delle ingiustizie che ha commesso e che è stato costretto a commettere utilizza proprio quel ragazzino , la sua già sporcata e inquinata purezza, per una vendetta impossibile da compiere fino al fondo di un’endemica barbarie che a un certo punto ha smesso di condannare a morte una volta sola , per poter continuare a condannare a morte all’infinito ( l’uomo non riuscirà ad uccidere ne se stesso né il comandante che in guerra lo aveva obbligato alla più sadiche atrocità, tra le quali giustiziare il suo migliore amico).

Nell’andirivieni tra polarità e tensioni antinomiche, con uno straordinario utilizzo delle dissolvenze che segnano il progressivo apparire e sparire dei personaggi cosi come le impressioni e le sovraimpressioni di emozioni e paranoie, c’è un ritorno alla locanda divenuta ormai  tana , spiraglio, caverna di ombre non più socratiche attraverso cui lo sguardo e la voce si riducono sempre di più, mentre lo spettro della malattia radioattiva si estende dal volto ormai oscurato della donna al bianco e nero della straniante riproduzione in scala di una città in cenere , la panoramica falso movimento di una condizione statica e irreversibile.

E non basterà un’altra appendice di dickensiana utopia: ogni sogno, ogni proiezione, ogni fantasma rientrerà in reverse dentro il loculo fuori campo di un silencio dopo lo sparo.

In anteprima al Festival di Venezia del 2023 (Sezione Orizzonti)


Hokage; regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Shinya Tsukamoto; interpreti: Shuri, Oga Tsukao, Hiroki Kono, Mirai Moriyama; produzione: Kaijyu Theater (Shinya Tsukamoto); origine: Giappone,2023; durata: 96 minuti.

 

 

 

 

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