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Voto
Ci sono film delicati, che non fanno molto rumore e sono girati anzi in punta di piedi. Film costruiti sul filo di trame psicologiche quasi insondabili, e per lo più contorte. Film in realtà che ci raccontano storie di vita quotidiana, ma di cui per ovvie ragioni preferiamo non parlare: non tanto i nostri sogni, quanto i nostri oscuri traumi, gli incubi. Insomma, film impostati sul tema incandescente dei dolori e delle sofferenze accumulate (e per lo più rimosse), ma che alla fine ti consentono di intuire di cosa veramente è fatta la vita di ognuno di noi.
Ecco, Hot Milk, opera prima di Rebecca Lenkiewicz – a cui dobbiamo sia la regia che la sceneggiatura – è uno di quelle opere che sembrano fatte apposta per mandare in estasi ogni psicoanalista. Ripeto, questo presentato dall’inglese Rebecca Lenkiewicz alla 75° edizione della Berlinale è il suo debutto come regista; ma la trama, i protagonisti e le storie narrate in Hot Milk hanno una loro coinvolgente densità e maturità.
Certo, l’autrice si è affidata all’omonimo romanzo di Deborah Levy, ad una storia assai ossessiva – e per niente felice – tra madre/figlia, e in cui la madre soffre da anni di una misteriosa malattia alle ossa. Tra l’altro, come romanzo, Hot Milk era arrivato, nel 2016, tra i finalisti del Man Booker Prize. Nel film invece, e nel giro di 92 minuti, ci scorre davanti agli occhi l’esistenza più che incasinata e tormentata di tre donne: di Rose prima di tutto (Fiona Shaw), una ex bibliotecaria inglese. E di sua figlia Sofia (Emma Mackey), che in silenzio sopporta ed assiste la madre nel suo calvario. Anche se ora madre e figlia ci provano almeno a ricostruirsi il miraggio di una vacanza, o persino di una vita normale, e tentano di capire in cosa consista la malattia di Rose, cosa davvero la ‘paralizzi’.

Tutto si svolge su un’incantevole spiaggia spagnola. È piena estate quando Rose, inchiodata alla sua sedia a rotelle e ai suoi flaconi di pillole, arriva con Sofia in una casetta in affitto sulle coste di Almeria, in Andalusia (anche se, poi, il film è stato girato in Grecia, fra Maratona ed Atene). L’obiettivo e tutta la speranza di Rose sono ora affidate alla clinica del dottor Gomez. E mentre lo specialista, col suo discorso psicoterapeutico, tenta di riportare Rose davanti ai suoi drammi personali (alle spalle lei si ritrova un matrimonio fallito, con il padre di Sofia) e altre pesanti tragedie familiari (una famiglia, la sua, incapace di ogni forma di comunicazione), Sofia si serra sempre di più nel suo ermetico silenzio.
Se non fosse per Ingrid (Vicky Krieps), una simpatica ragazza tedesca, che Sofia incontra casualmente sulla spiaggia. Due ragazze – una introversa, l’altra solare; Ingrid aperta al mondo, Sofia chiusa nei suoi studi di antropologia – che più diverse di così non potevano essere. E tra loro è subito attrazione, di quelle irresistibili. Un’attrazione dolce, e più o meno profonda. Sembrerebbe quasi il classico idillio che esplode in automatico d’estate, se non fosse che anche Ingrid ha i suoi lati oscuri, i suoi terribili segreti. Da bambina è stata lei a spingere in altalena la sua sorellina troppo in là, troppo in alto. E da quel salto orribile dall’altalena sua sorella non si è più ripresa: anche lei ‘paralizzata’ nel dolore, come Ingrid e come Rose, l’anziana bibliotecaria: donne rinchiuse in una morsa, nel risucchio del rimorso, e di sensi di colpa devastanti.
Fiona Shaw è bravissima a incarnare la madre inchiodata dalle sofferenze e dalle nevrosi del passato su una sedia a rotelle. Così come Emma Mackey è perfetta nel suo ruolo di figlia che solo a stento riesce ad allontanarsi dalle ombre materne. E dalla figura di un padre – di origine greca – che non è mai stato presente per lei (né un marito per sua madre Rose).
Nei suoi studi di antropologia Sofia si dedica alle danze e ai riti di passaggio delle cosiddette culture ‘primitive’. Passare tutte insieme, in gruppo attraverso ciò che è rimasto come stregato nella nostra infanzia, bucando le ansie e le paure che ci hanno ossessionato quand’eravamo adolescenti, e da cui non riusciamo più a liberarci: è forse questo l’”Hot Milk” su cui il film di Rebecca Lenkiewicz si basa, e ci confronta. Sofia, figlia unica e non proprio amata dai genitori, sembra in qualche modo riuscirci, lentamente, a slacciarsi dal suo ruolo di muta badante delle angosce materne, dai disastri familiari in cui casualmente è nata.
E come direttore della fotografia, in un team prevalentemente femminile, la Lenkiewicz ha optato per l’americano Christopher Blauwelt, che è riuscito a dare ai paesaggi marini e alle campagne mediterranee del film il giusto equilibrio poetico.
Un film da vedere Hot Milk. E una regista sicuramente da seguire Rebecca Lenkiewicz.
Hot Milk – Regia e sceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz; fotografia: Christopher Blauwelt; montaggio: Mark Towns; musica: Matthew Herbert; interpreti: Emma Mackey (Sofia); Fiona Shaw (Rose); Vicky Krieps (Ingrid); Vincent Perez ( Dr. Gomez); Patsy Ferran: (Julieta); Yann Gael: (Matty); Vangelis Mourikis (Christos); produzione: Kate Glover, Giorgos Karnavas; Christine Langan; origine: Inghilterra, 2025; durata: 92 minuti.
