Pomeriggi di solitudine di Albert Serra

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Il pesante respiro del toro riecheggia nell’arena, gli zoccoli affondati nella sabbia; lacrime di sudore solcano il volto del torero, il suo sguardo teso completamente assorbito nei propri gesti e in quelli dell’avversario. Albert Serra stringe sugli occhi dei due duellanti, rivelando una lotta comune per la sopravvivenza. Siamo in una corrida, e questo significa solo una cosa: del sangue verrà versato.

Il clamore del pubblico dagli spalti aggiunge un’altra dimensione, quella rituale. Non si tratta di un semplice confronto tra due contendenti, ma di una narrazione mitica: l’eroe contro la bestia. Il dettaglio intensifica la dimensione spirituale della disfida: durante la colluttazione, la pregiata veste del torero si strappa, insieme alle sue certezze. Isolando la carica esistenziale di ogni gesto, il dettaglio riporta il soggetto alla sua essenziale solitudine nell’eterna lotta contro la morte, che nella corrida si consuma ogni pomeriggio.

Ma quale enorme illusione! In questo duello soltanto il toro è davvero solo. Il sangue che sgorga dal suo dorso proviene da ferite inflitte non certo dal torero, ma dai suoi commilitoni che hanno debilitato il toro prima dello scontro. Per non parlare della selezione preliminare del toro che privilegia solo le specie più mansuete. Fin dal casting, il messaggio è chiaro: nello spettacolo non si può uscire dal testo.

Quanta imprudenza anima questo toro! Illuso dallo sventolamento di bandiere, scherzato dai movimenti del torero, crede di poter sfuggire al dispositivo in cui è inscritto! E più tenta di reagire, più cerca di sottrarsi dal potere che lo assoggetta, più viene colpito, ferito, infilzato. Improvvisamente, un sublime momento “serriano”: il toro mostra le corna e spezza il giogo, atterrando il torero, consumando la sua rivolta. Ma cos’è questo se non il culmine dell’illusione, la più tipica chiusura di secondo atto prima che l’inevitabile si compia, che l’eroe risorga, sfoderi la spada, e trionfi sulla bestia, inchinandosi infine davanti al pubblico festante?

Protetto e assistito, l’eroe prosegue la sua lotta perché deve innanzitutto garantire al pubblico il buon funzionamento del meccanismo spettacolare, l’impossibilità di un fallimento, la sua eterna perpetuazione. Lo spettacolo deve continuare, e per farlo ha bisogno di un’alterità che lo alimenti, che si ponga come ostacolo affinché l’eroe possa superarlo, vincere la morte, esorcizzarla per il pubblico. Come suo solito, Albert Serra sa perfettamente cogliere il punto di distinzione tra il tragico e il ridicolo: la necessità del mito e la sua assurdità.

Seguendo le gesta del celebre torero Andrés Roca Rey in varie arene, il cineasta catalano compone un quadro, aggiungendo di volta in volta nuovi dettagli a quelle che appaiono come procedure seriali di una performance teatrale itinerante. Certamente, in Andrés, nella sua concentrazione estrema di fronte al pericolo mortale, Serra si riconosce in quanto pittore del rischio assoluto, del gesto fondante. Ma si ritrova ancor di più nell’assoluta spaesatezza di questi tori, schiacciati da un potere che non riescono a nominare, coinvolti in un gioco di cui non hanno accettato le regole.

Trafitto, condannato a una morte lenta per mera vendetta, trascinato impunemente per l’arena, ridotto a trofeo. È la macchina da presa a restituire al toro quella sacralità che il dispositivo spettacolare gli sottrae. Basta un piano fisso accompagnato da una delicata melodia a sovvertire l’ordito. Qui risiede anche la novità rispetto all’influenza buñueliana: la sovversione non avviene nel backstage; al contrario, le discussioni tra il torero e i suoi collaboratori, in cui analizzano il duello, risultano parte integrante del meccanismo narrativo con l’esaltazione cameratesca dell’eroe. La sovversione è interamente in scena, ma si tratta di un silenzioso lavoro di regia al di fuori del testo, oltre le possibilità di manipolazione da parte dell’apparato.

Eppure, è la ripetizione seriale della chiusura, “la morte ogni pomeriggio”, a smorzare tale sacralità, ad abituare lo spettatore alla sua ineluttabilità, se non addirittura la necessità, a convincerlo della sensatezza, della piena legittimità di un mondo maschilista, paranoico e fanatico che giudica in base a “huevos” (palle) e considera invidiosi e criminali coloro che non onorano il dispositivo. Così, nel finale, quel toro che ha lottato strenuamente per sopravvivere, che barcolla tentando di mantenersi in piedi e che, dopo il colpo fatale, viene fatto sballonzolare per l’arena fino a esalare l’ultimo respiro, a quel toro non è concesso alcun onore, nessuna musica, nulla di sacro. Condotto rapidamente fuori, l’alterità sparisce dalla scena, non essendo più utile a fini spettacolari. Sul palco, a prendersi tutti gli onori, restano soltanto questi gangster squadristi che, come in un film di Melville o Rosi, si scambiano strette di mano, un compiaciuto attestato del compimento della macchinazione fascista.

In sala  8-9-10 settembre 2025.


(Pomeriggi di solitudine) Tardes de soledad – Regia e sceneggiatura: Albert Serra; fotografia: Artur Tort; montaggio: Artur Tort, Albert Serra; sonoro: Jordi Ribas Suris; interpreti: Andrés Roca Rey; produzione: Albert Serra e Montse Triola per Andergraun Films, Pierre Olivier Bardet per Idéale Audience, Luis Ferrón e Pedro Palacios per Lacima Producciones, Joaquim Sapinho per Rosa Filmes; origine: Spagna/Francia/Portogallo, 2024; durata: 125 minuti; distribuzione: Movies Inspired.

 

 

 

 

  

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