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Voto
La guerra dei Roses, la versione del 1989 diretta da Danny De Vito e interpretata Kathleen Turner e Michael Douglas, potrebbe essere considerata come la pietra tombale sul reaganismo degli uscenti anni ’80, che aveva cercato di proporre una sintesi impossibile tra lo yuppismo rampante di uomini e donne in carriera, con il ritorno al familismo più tradizionale, improntato ad essere l’asse portante della neoliberista economy attraverso la diffusione in larga scala di sit-com e soap opera con al centro prolifici focolari domestici (supportati da un gran quantità di sponsor e pubblicità). Quel film invece, ispirandosi a un romanzo di Warren Adler, svelava fino in fondo il lato dark (comedy) dello scontro tra sessi, portando l’avvocato Oliver e la chef Barbara a trasformare un comunissimo divorzio in una distruttiva discesa verso la vendetta, l’odio, la violenza fuori controllo, fino all’auto ed etero annientamento.
Il remake/riadattamento che ne ha realizzato oggi Jay Roach (esperto in dissacranti commedie familiari, visto che è sua la saga di Ti presento i miei), non può che essere sostanzialmente e formalmente differente. Cambia la provenienza della coppia, e di conseguenza lo humor, visto che i coniugi Theo e Ivy Rose sono inglesi, quindi più dialettici e mentali e meno fisici e iperbolici dei loro epigoni nordamericani; basta vedere la prima scena in cui entrambi si trovano, scettici e sarcastici, di fronte ad una terapeuta di coppia, ritrovando per altro una loro intesa nel malcelato disprezzo comune che provano verso di lei. C’è una differenza macroscopica in questo approccio della sceneggiatura di Tony MacNamara, frequente collaboratore degli ultimi celebrati film di Yorgos Lanthimos del quale tende ad imbrigliare il talento visionario in script abbastanza ad orologeria: non si ha mai la sensazione che questi Rose si odino veramente e vogliano farsi dal male, anzi per un buon tre quarti del film le incomprensioni e i fraintendimenti sembrano dispiacere entrambi. Il mondo intorno a loro, del resto, è decisamente cambiato, e le scelte di vita e di carriera sono diverse: conosciutisi a Londra con un colpo di fulmine culinario (lei fa sempre la chef, lui invece è diventato architetto) si trasferiscono in America per realizzare le proprie aspirazioni diversamente frustrate in patria, anche se lo cose ben presto, in uno schema da pochade piuttosto convenzionale, si capovolgono. Dopo il fallimento con tanto di crollo di una vela della sua opera più ambiziosa, Theo si ritrova a badare alla casa e ai bambini, mentre in contemporanea il ristorante con zuppa di granchio come specialità locale di Ivy, partito senza aspettative e riscontro, prende il volo grazie alla generosa recensione di un’influente critica gastronomica via web. Il motivo dell’annunciato conflitto è dunque l’invidia professionale di Theo verso Ivy, la solita difficoltà del maschio ad accettare il (maggiore) successo della propria compagna, a prescindere dai mutamenti sociali e antropologici, in prima battuta il consolidato declino di un certo modello maschile condannato all’affermazione e al primato proprio a partire dal nucleo familiare. L’uomo fragile e in balia degli eventi resta rancoroso e passivo-aggressivo, la donna che ottiene il riconoscimento pubblico del proprio talento perde progressivamente la cura e l’empatia nei confronti del partner.

Non c’è uscita a questo schema a cui manca, però, l’elemento che faceva del film di De Vito un’opera veramente tragica e comica; non c’è la visceralità, la corposità, la fisicità di un conflitto cosi intimo. Theo e Ivy hanno sempre una sorta di filtro analitico per cui qualsiasi emozione, sussulto, insofferenza verso il proprio partener non arriva come realmente sentita, ma mentalizzata, anche con immediatezza e velocità, e restituita sotto forma di battuta pungente, quanto evanescente. Si tratta di una scelta precisa anche della regia (come diceva Raoul Coutard, direttore della fotografia per Truffaut in Non drammatizziamo…è solo questione di corna, il commedia è il genere dove il piano visivo è più sacrificato a vantaggio dei dialoghi e del ritmo) che imbastisce battibecchi sempre più serrati a due, quattro, sei personaggi; una lunga e progressiva terapia di coppia e di gruppo (con le amene e grottesche figure di amici e vicini coinvolti nel match) che non produce alcuna catarsi e non avvia nessun processo di riconciliazione, parafrasando ironicamente la situazione dell’incipit. Anche qui, come nel duetto Douglas-Turner, il disprezzo reciproco ha bisogno di trovare un capro espiatorio e anche questa volta non si tratta, fortunatamente, dei figli (salvaguardati fino a un certo punto, e poi tenuti fuori campo al deflagrare del ménage): il (s)oggetto del contendere è la casa, in quanto luogo identitario, di memoria e di testimonianza, con un incastro oltretutto ancora più significativo. È lo stesso Theo a progettarla e costruirla, cercando in essa anche il riscatto della sua storia come architetto, anche se è Ivy a sovvenzionarla e pagarla, con ulteriore detour di prospettiva sul genere, visto che nel ’91 era Oliver a mettere i soldi e Barbara ad arredarla da cima a fondo.

L’impressione però è che nel meccanismo di McNamara/Roach ci sia una sproporzione tra le varie parti del racconto che tarda, ad esempio, ad arrivare al punto della casa trasformata in precario scenario dello scontro, e alcune idee interessanti, come il trasferimento negli Stati Uniti, che potrebbe a tratti apparire gratuito, ma che invece contribuisce allo sradicamento e al clima di estraneità tra Theo e Ivy, restano quasi solo un’enunciazione brillante. Mancano le esplosioni (per chi vedrà il film, in senso letterale…) e corre un senso di controllo, se non proprio di inibizione, dell’estremo e dell’eccesso per il quale è giustificata l’assenza della radicale parola “guerra” dal titolo. Si assiste più che altro a una scaramouche in punta di spada, tra due interpreti che è pleonastico definire bravi, seppure con qualche perplessità rispetto ad altre occasioni. Sia Benedict Cumberbatch che Olivia Colman, in grado di reggere con la sicurezza e l’autorevolezza dei mattatori ogni battuta e scambio, contribuiscono a edulcorare i difetti e le asprezze, a rendere troppo simpatici e tenere la loro coppia presumibilmente giunta allo stato ultimo della sopportazione e dell’abiezione. Con qualche ammiccamento e smorfia di troppo, strizzandosi reciprocamente l’occhio per non dimenticarsi mai di quanto sono dimenticati. Niente da spartire con le performance “animalesche” di Turner e Douglas (sulla carta, forse, meno bravi dei due sopracitati attori britannici).
Lo spettacolo in fin dei conti si fa seguire con piacere, anche se è il suo sottotesto amaro a restarne annacquato e affogato.
In sala dal 27 agosto 2025.
I Roses (The Roses) – Regia: Jay Roach; sceneggiatura: Tony McNamara dal romanzo di Warren Adler; fotografia: Florian Hoffmeister; montaggio: John Poll; musiche: Theodore Shapiro; interpreti: Benedict Cumberbatch, Olivia Colman, Andy Shamberg, Kate McKinnon, Allison Janney, Belinda Bromilow, Ncuti Gatwa; produzione: SunnyMarch, South of The River Pictures; origine: Gran Bretagna/USA 2025; durata: 106 minuti; distribuzione: Searchlight Pictures.
