Eden di Ron Howard

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La decostruzione e la disillusione nei confronti di guru, mentori, padri putativi, terre promesse e eden terrestri sembrano essere un movimento e un sentimento che risuonano dentro l’immaginario di un cinema statunitense che sta cercando di ripensare il proprio apparato spettacolare un po’ al collasso. Dopo l’esperimento riuscito a metà di Opus-Venera la tua stella, con questo Eden è nientemeno Ron Howard che, da un’altra prospettiva, scardina mitologie, leggende, e versioni di una storia di riscatto e trasformazione, ribaltata in una perlustrazione nuda e cruda della psicologia e degli istinti umani alle prese con la basica sopravvivenza, in un mai risolto homo homini lupus.

L’ispirazione viene dalla realtà, un fatto accaduto a ridosso della fine della prima guerra mondiale sulla sperduta isola di Floreana, nelle Galapagos, sulla quale si era recato, per elaborare una nuova filosofia che potesse salvare il mondo dall’abisso e dalla disperazione in cui era caduto, il Dr. Friedrich Ritter assieme alla sua compagna e assistente Dora.

Questa situazione di isolamento e concentrazione, il ritorno a tutti gli effetti ad un Eden simbolico prima dell’originario peccato umano di tracotanza nei confronti di un divino sostituito dall’idealismo, è però subito interrotta dall’avvento di una serie di personaggi che, seguendo il molto pubblicizzato esempio del dottore, vanno a cercare una vita migliore in quella roccaforte piantata in mezzo all’oceano, a cominciare dai coniugi Heinz e Margret Wittmer con un figlio turbercolotico a carico e un altro in arrivo ( Margret è in realtà la seconda moglie, ripudiata dalla famiglia per aver scelto come marito un ex soldato fortemente traumatizzato dall’esperienza della guerra di trincea). Già dall’inizio Ron Howard, che ci ha abituato ad una descrizione più cauta, equilibrata, affettuosa di una comunità e dei suoi abitanti (in particolare quando ha toccato il nucleo familiare e i suoi legami ), contamina la rappresentazione con scarni elementi di potenziale violenza, manipolazione, paranoia. Il dottor Ritter appare con le sembianze spoglie, sporche, spartite tra l’esaltazione e lo sbracamento di un Jude Law sensuale nella sua non troppo velata laidità, cosi come la compagnia di viaggio, ha l’asprezza e l’amarezza di cui è capace la femminilità rocciosa e impenetrabile di Vanessa Kirby; la coppia di coloni tedeschi è ugualmente già segnata dalla vita, e i pur belli e giovani Daniel Brühl e Sydney Sweeney ci appaiano appassiti e spenti nell’aspetto, quanto accesi e pronti a scattare per soddisfare la fame di cibo e la sete di acqua, come quella di un’altra esistenza.

A un simile quadrilatero sul filo teso di una deflagrazione si aggiunge il piratesco personaggio della sedicente Baronessa che vorrebbe l’isola tutta per se, spargendo zizzania per spingere i Ritter e i Wittmer all’annientamento gli uni degli altri ; un altro corpo di promessa e desiderio al quale la sua incarnazione, Ana De Armas fu Blade Runner 2049 e Blonde, riserva un destino di (s) mascheramento, illusioni perdute e cadaveri sventrati e annegati. Peraltro, come nel film sulla Monroe ispirato al romanzo di Joyce Carol Oates, anche lei si accompagna ai due amanti/adoranti, qui ridimensionati  a servitori di comodo e lestofanti che finiranno strozzati dalla stessa, spregiudicata ambizione della loro signora.

Nonostante l’ambientazione in mezzo alla natura incontaminata e alla livida e vitale presenza di elementi primordiali, le immagini sono virate e smorzate dall’oscurità che esplode, in un crescendo sempre più degradante di colpi bassi e inganni, da ciascuno degli isolani, e la violenza esplode in modi e tempi spiazzanti per il ben più educato ex enfant prodige Howard ,che ha sempre tenuto a mantenere uno sguardo di meraviglia e innocenza pur raccontando le storie di individui logorati dall’ossessività e dalla dissociazione tra mente e cuore, razionalità e istinto. Il torvo Ritter è distante anni luce dalla soave grazia del John Nash di A Beautiful Mind, cosi come Dora non ha nulla della paziente e dedita amorevolezza di Alicia.

L’ambiguità e frammentarietà del reale nella sua casistica più estrema non sono tenute insieme dalla virtù amorevole di uomini esposti al caos dell’ universo e di donne in attesa di un omerico ritorno del viaggio dell’ eroe (le mogli degli astronauti in sospensione nello Spazio di Apollo 13, o le compagne dei pompieri in una lotta corpo a corpo con le fiamme di Fuoco assassino). Nessun romanticismo, gli stessi bambini nascono in mezzo a cani sbrananti e sbavanti e il mito del focolare domestico si converte nella cenere non ardente di una formalità: “ Ti ho sposato perché me lo hai chiesto“, dice sconsolata Margret ad Heinz sul perché di quella loro non appassionata condivisione coniugale, qualcosa che suona così diverso dal “A te devo tutta la mia vita” rivolto da Nash ad Alicia nel momento di ritirare il premio Nobel. Questo cambio di registro è assai apprezzabile, nonostante una certa visione d’insieme e una sovrapposizione di registri ( film d’avventure, biografia, thriller, commedia, dramma) renda un po’ faticoso il seguire una direzione, precisione e lucidità che si vorrebbero prima di qualsiasi commozione ed empatia. Non ci si affeziona e identifica con nessuno ed essendo ogni elemento scoperto e dichiarato non c’ è neanche il meccanismo agatachristiano dei dieci piccoli indiani per rivelare chi è l’ assassino. Il contagio del male trova poi il suo corrispettivo nell’ uso e abuso degli animali (l’asino surrogato di un figlio per Dora, le galline avvelenate dalla carne marcia) e, seppur in controtendenza, la spietatezza generale arriva come programmatica e schematica. Ben venga però un autore che ha la capacità di porsi in una maniera critica e problematica rispetto al proprio stesso immaginario non solo cinematografico, ma anche valoriale, di riferimento; potremmo parafrasare questo cambiamento con quello del quacquero Josh Birdwell/Anthony Perkins de La legge del Signore di William Wyler, che piangendo impugna il fucile e mira contro il nemico, anch’egli una creatura di Dio, anch’egli un essere umano. La vera Margret, capace di partorire in mezzo ai lupi, ha continuato a vivere una longeva esistenza sull’isola di Floreana, “seppellendo” gli altri protagonisti della vicenda. Un nuovo peccato originale che non comincia più con l’impulsiva trasgressione ad un divieto patriarcale, ma con la lucida dichiarazione di una menzogna matriarcale.

In anteprima italiana al Festival di Torino 2024
In sala dal 10 aprile 2025.


Eden – Regia: Ron Howard; sceneggiatura Noah Pink; fotografia: Mathias Herndl; montaggio: Matt Villa; musica: Hans Zimmer; interpreti: Jude Law, Vanessa Kirby, Sydney Sweeney, Daniel Bruhl, Ana de Armas, Jonathan Tittel, Richard Roxburgh, Toby Wallace; produzione: Imagine Entertainment, AGC Studios; origine: USA, 2024; durata: 129 minuti; distribuzione: 01 Distribution.

 

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