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È in corso di trasmissione il lunedì dall’ 8 aprile su Rai Uno (ma poi recuperabile su Rai Play) la serie crime-comedy, Il clandestino – Un investigatore a Milano, prodotta dalla IIF di Fulvio e Paola Lucisano con Rai Fiction. 12 episodi da 50’ circa per un totale di 6 serate sulla rete ammiraglia della Rai, eccezion fatta per il 29 aprile quando causa “Giornata internazionale della danza” deve lasciar posto a Viva la danza con Roberto Bolle, slittando al martedì.
Diretta da Rolando Ravello, nato attore sotto l’egida di Ettore Scola e poi divenuto regista cinematografico e televisivo discretamente apprezzato, Il clandestino è soprattutto l’occasione per un attore lanciatissimo come Edoardo Leo di cimentarsi con quello che può essere considerato il filone più robusto della serialità televisiva “made in Italy”: il detective-movie, che un tempo avremmo non a caso chiamato “giallo-poliziesco”.
La teoria è sterminata: Il commissario Montalbano con Luca Zingaretti tratto dai libri di Andrea Camilleri; I bastardi di Pizzofalcone con Alessandro Gassmann da Maurizio De Giovanni; Monterossi con Fabrizio Bentivoglio da Alessandro Robecchi; L’ispettore Coliandro dei Manetti Bros. con Gianpaolo Morelli da un’idea dello scrittore Carlo Lucarelli; Makari di Michele Soavi con Claudio Gioè da Gaetano Savatteri; I delitti del Barlume con Filippo Timi da Marco Malvaldi; Petra con Paola Cortellesi da Alicia Giménez Bartlet; Le indagini di Lolita Lobosco con Luisa Ranieri da Gabriella Genisi; a tutti, volendo, potremmo aggiungere anche Imma Tataranni – Sostituto procuratore con Vanessa Scalera liberamente tratta dai romanzi di Mariolina Venezia.
Come si vede si tratta di una fioritura produttiva che domina il mercato in maniera preponderante, basata per lo più su una figura come il detective privato totalmente estranea al nostro ordinamento giuridico e anche alla nostra cultura; qualcuno dice per la pregiudiziale antifascista che ci ha resi congenitamente scettici verso questa tipologia sociale di giustiziere della legge (non solo della notte) molto legata alla tradizione letteraria e cinematografica americana – dall’hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler giù giù fino alla produzione hollywoodiana “reazionaria” incarnata dai miti legalitari di Clint Eastwood e Charles Bronson (che hanno avuto in seguito una significativa replica italiana nel cosiddetto “poliziottesco”).
Leggendo la sommaria rassegna di cui sopra vi è un altro elemento che balza agli occhi: tutti i personaggi sopra elencati hanno avuto una precedente vita romanzesca o comunque una genesi in qualche modo letteraria. Il clandestino no: è basato su un soggetto originale; e ciò costituisce il primo tratto di assoluta originalità, tanto per far bisticciare le parole. Gli autori del concept e dei singoli script della serie sono Ugo Ripamonti, Renato Sannio e Michele Pellegrini; che nel pressbook la descrivono così: “L’intenzione era raccontare, attraverso gli occhi di un protagonista che sta espiando una colpa gigantesca, un mondo in cui bianco e nero non esistono, ma vengono sostituiti da infinite sfumature di grigio.”

Il secondo elemento che consente alla serie di Ravello di distinguersi dalle altre è la sua ambientazione, che non si limita a essere semplicemente una location. È molto di più, è spunto narrativo e anima dello show: Il clandestino è ambientato a Milano, la città più multietnica d’Italia, nella quale accanto alla moda e alla finanza vi sono fenomeni socialmente rilevanti come, ad esempio, quelli determinati da una immigrazione massiccia che qui palesa alcuni suoi aspetti problematici. Come precisano ancora i tre sceneggiatori: “Quello che ci affascinava fin dall’inizio è che dietro la sua immagine di città ricca, efficiente e cosmopolita si cela una metropoli piena di contrasti e contraddizioni, in cui mille etnie diverse si mescolano tra le strade in una Babele di lingue e culture. Un’arena in cui l’alto e il basso si mescolano costantemente creando conflitti e, dunque, storie.”
Lo si vede nel primo episodio che narra la fertile ma non sempre pacifica vicenda degli immigrati magrebini di seconda generazione che ormai parlano con spiccata cadenza meneghina, spacciano il fumo e rappano la trap; e sono un fatto acclarato, un dato sociologico, che diventa arte canora nazional-popolare; come, Mahmood che vince due volte Sanremo ed è cresciuto nel quartiere periferico del Gratosoglio, o Ghali nato a Milano da genitori tunisini nella periferia milanese di Baggio prima di dare scandalo per aver pronunciato un’ovvietà scandalosa soltanto per chi non vuol vedere.
Oppure nel sesto episodio in cui la cronaca si fa nerissima e attuale: le famigerate le gang latine, bande di figli di immigrati sudamericani armati di machete che imperversano da anni nelle periferie milanesi, qui a Corvetto. Trova ancora spazio la classica storia di matrimonio combinato di una modella di origine algerina, che cita la tragedia di Saman Abbas; in cui lo staff di autori introduce alcune osservazioni non banali circa le aberrazioni criminali di certi fondamentalisti religiosi che nulla hanno a che vedere con la precettistica della religione musulmana.
Ultimo non ultimo, nella lista temi all’ordine del giorno estrapolati dalla cronaca non può mancare e infatti non manca il tema dello stalking e della violenza sulle donne.
Qui sta a nostro parere uno degli aspetti di maggior pregio di questa serie, che prova a intercettare certe contraddizioni della società contemporanea, rappresentandole in modo sufficientemente onesto e convincente. Lo fa secondo un approccio narrativo scopertamente empatico verso i vari fenomeni di emarginazione e inclusione che la realtà ci propone; in una chiave che nel bene e nel male oggi si definisce “woke”. Una sorta di inno all’integrazione e alla tolleranza, nel senso che una certa pubblicistica un po’ corriva definirebbe “buonista”; ovvero un esempio conclamato di narrazione open-minded di temi di scottante attualità declinati in chiave “progressista”.
Poi c’è la storia che è appunto quella di un “clandestino” (figlio di un emigrante italiano in Libia che ha sposato una donna del posto, la mamma del protagonista, poi rispedito in Italia da Gheddafi), inteso proprio nel senso della title-track della colonna sonora cantata da Simone Cristicchi sulle note di Maurizio Filardo, che dice così: “Sono l’uomo della porta accanto, sono io lo sconosciuto affianco. Nel riflesso lo specchio di quello che sono, un clandestino”. Insomma, qualcosa di non troppo diverso da quanto dicevano le liriche di un “clandestino” musicale più famoso, quello di Manu Chao, che tra l’altro cantava così: “Vado solo con il mio dolore, nel cuore della grande Babilonia. Sono andato a lavorare in una città del nord.”
Insomma, è la storia di Luca Travaglia, un ex ispettore dell’antiterrorismo, che dopo un evento tragico che lo coinvolge anche negli affetti privati, lascia la polizia e si trasferisce a Milano, il luogo migliore dove nascondersi per un romano. Più precisamente nel retrobottega di un’autofficina gestita da un cingalese appassionato di letteratura gialla, che gli propone di fondare una picaresca agenzia di investigazioni private che chiameranno per l’appunto “Clandestino”.
E fin qui tutto bene, anzi benissimo: cosa chiedere di più a una serie tv in prima serata sul più visto canale della tv di Stato se non d’investigare la contemporaneità nei suoi recessi più reconditi, nelle più drammatiche aporie, nelle trame più controverse, come effettivamente questa fa? Forse niente, perché date le circostanze un prodotto come questo, diligentemente edificato su una drammaturgia insieme verticale (per quanto attiene ai plot delle singole indagini) e orizzontale (per dispiegare il racconto dei tragici flashback sentimentali e politici, e quello attuale del subplot romance) è il massimo che si può pretendere. Dunque, grazie a Ravello per il coraggio dell’originalità e a Leo che qui aggiunge nuove sfumature al character insieme ombroso e bonario che sta progressivamente costruendo nel corso del tempo di una filmografia molto coesa.
Non si può, tuttavia, tacere della patina corriva da fiction Rai di prima serata; dunque compilativa, qua e là didascalica, sostanzialmente non troppo disturbante per non dire scopertamente edulcorata. Una rassegna ordinata e esaustiva tipo Selezione Reader’s Digest di tutti i cliché milanesi: Chinatown, le bande di trafficanti magrebini, la settimana della moda con tanto di stilisti gay, etc. Oltre a una certa sciatteria rilevata per lo più nella recitazione dei comprimari, presi – è proprio il caso di dire – dalla strada (come la modella algerina, il trapper marocchino, la sciura milanese, etc.), in certi casi davvero troppo legnosa; che danno vita a una serie di personaggi non sempre adeguatamente cesellati e talvolta appena sbozzati.
Ancora: una gamma di soluzioni fotografiche piatte, se non persino “smarmellate” e l’onnipresente musica melensa e un filo ridondante: la colonna sonora di Filardo contiene una sin troppo esibita citazione dell’arpeggio di uno dei più famosi score di Morricone per Leone, ovvero il primo brano di Per un pugno di dollari, quello dei titoli di testa.
Molto apprezzabile invece il coté comedy di questo noir metropolitano, affidato ai duetti tra Leo e il deuteragonista Palitha, interpretato dall’attore keniano Hassani Shapi. Un divertentissimo immigrato politicamente scorretto che assieme al protagonista compone una coppia degna di Don Chisciotte e Sancio Panza, oppure – più modestamente – di Zagor e Cico.
In onda su Rai 1 dall’8 aprile 2024
CREDITS & CAST
Il clandestino. Un investigatore a Milano – Regia: Rolando Ravello; soggetto: Ugo Ripamonti, Renato Sannio; sceneggiatura: Ugo Ripamonti, Renato Sannio, Michele Pellegrini; fotografia: Fabio Di Battista; montaggio: Luciana Pandolfelli; musica: Maurizio Filardo; interpreti: Edoardo Leo, Hassani Shapi, Alice Arcuri, Fausto Maria Sciarappa, Lavinia Longhi; produzione: Fulvio e Paola Lucisano per IIF con Rai Fiction; origine: Italia, 2023; durata: 12 episodi di ;distribuzione: Rai 1.
