Il gioco del destino e della fantasia

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Proveniente dal Festival di Berlino di quest’anno  dove aveva vinto l’Orso d’argento come Premio Speciale della Giuria, esce in questo scorcio d’agosto un’opera, molto, molto notevole, che sonda in luce e controluce i rapporti umani e l’essenza dell’amore.

Gūzen to sōzō cioè come da titolo italiano, Il gioco del destino e della fantasia, è una ronda di sentimenti e accadimenti relazionali trasposti in tre episodi non legati tra loro, del tutto indipendenti l’uno dall’altro, quindi con personaggi e di conseguenza attori diversi. Il filo rosso è rappresentato dalla ruota del caso che unisce le differenti storie: la prima racconta di un triangolo amoroso inaspettato, in cui Meiko, dopo una lunga discussione in macchina con un’amica e collega di lavoro, si rende conto che l’uomo per cui la ragazza inizia a provare dei sentimenti, è il suo ex-fidanzato storico – seguirà una vivace, a dir poco, discussione con il ragazzo che lei ama ancora; il secondo episodio tratta di una trappola fallita di ricatto e seduzione: Sasaki cerca, per eseguire una vendetta, di incastrare il suo professore universitario (di francese – vedremo non a caso, dato la passione del regista per la “Nouvelle Vague”); infine il terzo segmento del film descrive un incontro nato su un malinteso: Natsuko incontra alla stazione della metropolitana una persona che sembra essere appartenuta al suo passato, e tale incontro porta le donne a confessare dei sentimenti nutriti nei loro cuori.

A dirigere questa opera tutta al femminile, costituita sulla complessità delle relazioni interumane, nate altresì attraverso una serie fortuita di coincidenze quotidiane nelle vite di donne innamorate, è una delle speranze – o meglio ormai qualcosa di più visto il suo curriculum – del cinema giapponese contemporaneo. Hamaguchi Ryûsuke (classe 1978), già con Passion (2008), con cui aveva concluso gli studi di cinema alla Tokyo University of the Arts, era stato selezionato dal Festival di San Sebastian e dal Tokyo FILMeX.  A rivelarlo, però, al pubblico cinefilo mondiale sono stati, prima il torrenziale Happy Hour (2015, la bellezza di 317 minuti) passato con successo al Festival di Locarno e poi il Concorso di Cannes in cui, nel 2018, era stato presentato Asako I & II.

Infine, per restare ai titoli principali della sua non già piccola filmografia che comprende alcuni documentari a quanto si legge parecchio interessanti, ha co-sceneggiato il bel Wife of a Spy (http://www.close-up.it/spy-no-tsuma…) del suo mentore e estimatore Kurosawa Kiyoshi, film che ha vinto il Leone d’argento alla Biennale di Venezia del 2020.

Non sorprende per un autore cinefilo e talentuoso come ci appare, d’acchito, Hamaguchi, che due siano stati nomi dei suoi registi preferiti: il greco-americano John Cassavetes, il capostipite e maestro del cinema indipendente americano, e uno dei quattro moschettieri della Nouvelle Vague, Eric Rohmer. Tale costellazione spiega, sia tematicamente sia sul piano stilistico, le scelte di messa in scena operate dal regista giapponese, la ricerca di un cinema che colga, nel divenire del tempo, delle cose, del fato, le relazioni tra essere umani, riuscendone a sublimare l’essenziale e il tipico, il tragico, l’amore, il meschino. Dai suoi modelli storici dichiarati – si diceva Cassavetes e Rohmer – riprende soprattutto l’intensità e l’importanza della parola nel cinema, la brillantezza del testo dei dialoghi con i leggeri spostamenti interni dei sentimenti che li supportano sino al climax finale delle sue short stories.

La novità o meglio l’originalità di tale progetto sta, però, nella capacità di essere riuscito a tradurre tutto ciò – e con grande capacità stilistica – dentro un mondo di immagini e di comportamenti tutto diverso da quello occidentale, europeo o americano che sia. Ma il risultato finale non cambia ed è di grande valore poetico, una poesia dunque di immagini-parole quotidiane, un tutt’uno, che commuove ed affascina nella loro semplicità. In questo film non succede quasi nulla, Hamaguchi, in ciò, è molto vicino ai grandi classici del proprio cinema come Ozu e Mizoguchi, lontano anni luce dalla drammaturgia americana dei tre o cinque atti. In Il gioco del destino e della fantasia, perciò, non c’è nulla o quasi nulla di eclatante, mentre anche la violenza estrema dei sentimenti esplosi e dell’amore, non dà mai adito a scene madri melodrammatiche o a atti di intemperanza fisica trai personaggi in gioco. Tutto resta molto calmo e controllato, persino l’odio profondo o il disprezzo, d’altronde siamo nel paese del Sol levante che ci ha abituato a conoscere reazioni del genere.

Per concludere: tra i tre episodi tutti molto belli – il primo molto rohmeriano, il secondo anche con accenni quasi erotico-surreali – preferiamo, a nostro gusto, il segmento conclusivo, in cui la qualità di scrittura scenica di Hamaguchi raggiunge il limite della perfezione, in un finale di altissima intensità poetica. Si tratta di una vera, forse inaspettata, sorpresa, possiamo dichiaralo ad alta voce, anche se, siamo consapevoli che un film del genere annoierà a morte il pubblico più propenso all’action movie. Ad esso non crediamo di poterlo consigliare.

In sala dal 26 agosto 2021


Guzen to sozo/Il gioco del destino e della fantasia – Regia: Ryusuke Hamaguchi; sceneggiatura: Ryusuke Hamaguchi; fotografia: Yukiko Iioka; montaggio: Akhihiko Suzuki; interpreti: Kotone Furukawa (Meiko), Kiyohiko Shibukawa (Segawa), Katsuki Mori (Nao) Fusako Urabe (Moka), Aoba Kawai (Nana), Ayumu Nakajiima (Kazuaki); Hyunri (Tsugumi), Shouma Kai (Sasaki); produzione: Neopa, Tokyo, Fictive, Tokyo origine: Giappone 2021;  durata: 121’; distribuzione: Tucker Film.

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