-
Voto
Il Mercante di Venezia è una delle opere più brutali del genio inglese. E accanto a brutale si legga altro: infame. Non per il sangue che si accumula sul palcoscenico, neppure una stilla di sangue è (deve/può essere) versata, ma per quello che si fa al protagonista.
Lo si maltratta. Gli si fa male e gli si vuole male senza tregua. Si ride di quel dolore, persino. E tutto ciò lo si fa quando eppure due ore sono state spese con un solo nobilissimo fine, e cioè capire perché Shylock è cattivo. Quando Shylock in realtà non è cattivo, piuttosto è incattivito dal genere umano che non gliene risparmia una: gli ha dato del cane usuraio, ha sputato al suo passaggio, e quando pare che lui alla fine abbia vinto e abbia vinto stando alla LORO di giustizia, quella cristiana, ecco che nuovamente a terra finisce. A strisciare. A elemosinare. Clemenza non c’è. Magari parvenza di clemenza, ma
Il mondo è ancora ingannato dalle apparenze.

Si dice che Shakespeare in Italia non ci abbia mai messo piede. Verona, Padova, appunto Venezia, nulla di nulla, Shakespeare non viveva di ricordi, bensì dell’eco di mistero che quelle città italiane emanavano e il cui fascino travolgeva i vicoli londinesi che i palazzi li avevano, certo, ma al massimo solidi e per niente sfarzosi, e le strade pure, ma infangate e non a precipizio tra finestre di amati o ignorati. Il primo passo, perciò, è essere portati a Venezia, in laguna, senza gridarlo che lì si è, ma accennandolo, come al teatro spetta.
Alle spalle mattonato grigio fumo, sotto i piedi pavimento lucido. Lucido che sa tanto di specchio d’acqua alta e riflesso annacquato di personaggi che saltano da una panchina all’altra per evitare il bagno, lucido per far danzare lanterne nell’oscurità del teatro romano di Verona. Perché Venezia è oscurità opulente. È canali e calle. Finestre che si aprono lassù, bocche di scena che si aprono quaggiù con siluette di corpi curvi, ombre cinesi si affacciano sul palcoscenico e marcano la presenza. Quella del diavolo, quella dell’ebreo, Shylock, ma soprattutto di Franco Branciaroli.
Franco Branciaroli è uno degli ultimi giganti. Uno che ha lavorato con Ronconi, Bene, Antonioni, Tinto Brass, tra cinema e tanto teatro, tra Milano e Torino, e avere uno dei giganti comporta un privilegio per gli spettatori come per il regista, Paolo Valerio. Privilegio, e dato di fatto.
Branciaroli c’è, è sul palcoscenico, e ciò ti porta a tenere una rappresentazione tradizionale – nonché rassicurante per il pubblico – focalizzata sull’identificazione tra protagonista e grande attore. La tentazione di lasciare campo a Branciaroli/Shylock è giustificata quanto rischiosa: a un grande attore devono rispondere grandi prove attoriali da parte degli altri, pena l’affievolimento del conflitto e così della forza stessa dell’opera.
La costruzione della pièce aiuta? Il Mercante è un lavoro hammer time. Il martello cala quando c’è l’ebreo in scena, ma quando lui non c’è vi è respiro e leggerezza tra scelte di scrigni d’oro argento piombo, storie d’amore e anelli tra nobildonne e ancelle e i rispettivi spasimanti. Il corpo centrale dell’opera è infatti perlopiù svolazzi farciti da comicità classista. È nei colpi finali del martello, quando il ferro è ormai battuto, che i nodi vengono al pettine: Shylock è in scena, i debitori e amici di debitori anche, gli innamorati – chi trasvestito chi meno – pure, e lì bisogna sapere bilanciare il palcoscenico. E ci si riesce?

Antonio e Bassanio non ce la fanno. È vero, i due possono essere due personaggi deboli, eppure devono essere forti, quello sì, a livello di coppia, e il regista questo lo sa perché li porta fino a lì, al bacio fraterno, ma loro due non solo non riescono a fare uno Shylock – mancanza che scenicamente è anche accettabile perché l’ebreo è l’ebreo – ma il debito (l’ennesimo) alla lunga si fa sentire nella forza che dovrebbe appartenere al conflitto. E alla fine i debiti si pagano.
Voluta o meno questa debolezza, tocca alle donne – Porzia e Nerissa – cercare di riempire lo spazio e colmare la distanza con Shylock. Laddove loro non riescono (nonostante l’ottima prova attoriale), ecco che sono i movimenti di scena e la mobilità degli attori stessi – sempre molto rispettosa e coerente, evitati slanci – a provare a salvare gli equilibri. Come se si utilizzasse la bilancia, con i pesi da mettere con cura sui due piatti. Un poco qui, un poco là. Così mai il palcoscenico è vuoto, i giocatori sono sempre ai lati per intervenire e ridare ritmo quando il martello è in calo, calato o in risalita, e in tal modo il ritmo è ricaricato a mo’ di orologio con aiuto di strumentini e balletti (non sempre efficaci, vedi il finale), cosicché lo spettatore non si perde e le due ore sono godibili. E la godibilità nel teatro è importante.
Alla fine però si torna a lui. Perché Shylock vuole la sua libbra di carne? Insomma, perché è cattivo? Ma l’ebreo non è cattivo, è incattivito. Alla fine lui cerca l’amicizia del cristiano e la clausola, quella libbra, la inserisce per capriccio (inconscio) ai 3000 ducati che Bassanio gli chiede e di cui Antonio si fa garante. Il problema è quando l’amicizia viene tradita, indirettamente, e con il soldo è la figlia dell’ebreo a essere ‘portata via’. Di nuovo, come sempre, da un cristiano. E allora
Forse che un ebreo non mangia come gli altri esseri umani? Se lo pungete non prova dolore? Non si ammala delle stesse malattie dei gentili? E non si cura con le stesse medicine? Quando da il suo meglio è poco peggio di un uomo, quando da il suo peggio è poco meglio di una bestia.
E quindi
Voi ci insegnate il male e noi lo mettiamo in pratica. Io, Shylock, sono il più bravo dei maestri.
Il diavolo lui è, ma diavolo è stato dipinto e poi creato. Da loro, da tutti, dagli uomini. E la poetica di Shakespeare è una poetica che dispiega le sembianze dell’aguzzino mostrandone la sostanza di vittima ma l’essere vittima non è comunque garanzia di salvezza. Anzi, può essere occasione di ennesimo sopruso. Perché ogni protagonista shakespeariano è prima di tutto umano, ma un cattivo deve esserci: alla fine si parla di società e affini, e la società umana il chaos lo deve sistemare, sempre, perché siano le apparenze ordinate a sopravvivere e la giustizia, per quanto ingiusta, a braccetto.
Si diceva che il Mercante è una delle opere più brutali (si legga, di nuovo, infami) di Shakespeare, e lo è perché se ben eseguita pretende che lo spettatore si schieri. Noi, Shylock lo capiamo o non lo capiamo? Ridiamo della sua fine o lo compatiamo? Sì, è importante cercare risposta. Soprattutto è importante che ce lo si chieda.
Spettacolo andato in scena l’1 e il 2 luglio presso il Teatro Romano di Verona – Estate Teatrale Veronese
A seguire:
- Il mio cuore è con Cesare – 7 e 8 luglio
- R+G di Tommaso fermariello – 11 luglio
- Boomers – 15 e 16 luglio
- Racconto d’Inverno – 19/26 luglio (escluso il 24)
- Verona Shakespeare Fringe Festival – 22/28 agosto
Il Mercante di Venezia di William Shakespeare – traduzione: Masolino d’Amico; regia e adattamento: Paolo Valerio; scene: Marta Crisolini Malatesta; costumi: Stefano Nicolao; luci: Gigi Saccomandi; musica: Antonio Di Pofi; movimenti di scena: Monica Codena; interpreti: Franco Branciaroli, Piergiorgio Fasolo, Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Valentina Violo, Dalila Reas, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli.
