Romanzo d'esordio di Gianluca Nativo, Il primo che passa (Mondadori, 2021) si rivela lettura di straordinario interesse.
Pierpaolo, il protagonista de Il primo che passa di Gianluca Nativo, non è un ragazzo come tanti. A vederlo, sembra quasi un alberello scontroso, fitto di rami che pungono gli occhi come spine.
La sorte gli ha regalato uno spazio mediocre, con luce abbastanza per slanciarsi verso l’alto, ma in cui si ritrova pur sempre costretto al lastricato di un contesto urbano soffocato tra asfalto e spazzatura.
La primavera gli frattura la crosta di innumerevoli bocci verdi. Fragili tanto, che c’è sempre pericolo se li mangino gli uccelli.
Non c’è tenerezza, quindi, nell’adolescenza acre di sudore di Pierpaolo, anche perché lui cresce in un quartiere popolare di Napoli. I suoi genitori sono esponenti di un vecchio sottoproletariato che, pasolinianamente, ha perso l’innocenza già tanto tempo fa e si è arricchito, in nome del consumismo, ricorrendo all’unico strumento possibile in un mondo come questo: la criminalità banale di chi ha lasciato il livello basso della strada e ha avuto la ventura di fare il salto ai primi piani dei contabili e dei notai. Da lì si può guardare la quieta disperazione degli affanni della più varia umanità che scorre giù, infilando le gambe tra le sbarre della ringhiera, certi di non cadere, ma anche un po’ curiosi di quest’altro che si ha comunque sotto i piedi. Un sottoproletariato che ha vissuto nei palazzoni anonimi della periferia sino a che non ha trovato la forza di diventare quella mostruosa borghesia che, in genere, i figli se li mangia o li dà in pasto ai porci se, per ventura, sono troppo alieni all’unico vero imperativo: continuare a far girare la filiera della produzione di denaro.
In questa realtà Pierpaolo, come un alberello, cresce attorno a uno stecco che gli fa da basto e gli impone una sola direzione. Non può andare dove vorrebbe. Anche se la sete di luce delle sue foglie invoca un sole alto, oltre i palazzi grevi dell’abuso edilizio, lui è legato al sistema. La famiglia è il terreno in cui affondano le sue radici, ma sono i privilegi in cui è cresciuto, la ricchezza un po’ cafona della sua casa, gli sguardi ammirati degli altri parenti che non ce l’hanno fatta a costringere i suoi rami a una forma che in fondo non è la sua. E come per gli alberi che la mano del contadino ha costretto ai canoni del giardino, anche Pierpaolo si modella nel rimpianto del rigoglio che avrebbe potuto essere. Un rimpianto che c’è, sotterraneo, in ogni gesto, anche se di rado assume la forma della consapevolezza vera, perché, ci fosse presa di coscienza, dovrebbe poi esserci rivolta al sistema patriarcale e l’assunzione di una responsabilità nei confronti degli altri che pare impossibile ha chi, sino a quel momento, ha vissuto in dubbi lussi.
Sarebbe già, questa, una situazione drammatica di suo, se non si aggiungesse al quadro il fatto che Pierpaolo è omosessuale. Ha un ormai ex compagno di classe che lo turba e che rende ambigui i suoi pomeriggi in comitiva. Ha pulsioni che lo affannano e che vorrebbe assecondare, se non fosse per quello stecco che sta lì a raddrizzargli la spina dorsale, facendolo scricchiolare mentre cresce. Nel sistema patriarcale, essere gay non è impossibile, ma, se non altro, sconsigliabile. Soprattutto ora che il padre è costretto agli arresti domiciliari per qualche illecito di troppo e gli occhi di tutti sono puntati sulla famiglia. Soprattutto adesso che deve costruire il suo futuro con la scelta dell’università, coi primi esami che non può fallire, e con l’immagine di sé che “se non ora quando” deve costruire. Per cui, a fronte di una madre che in fondo il figlio non è che non lo capisca (ma ha altre priorità) e di un padre più miope ai bisogni del figlio, a Pierpaolo non resta che assecondare le proprie pulsioni senza che queste comportino una frattura con il passato.
Ed ecco che, all’alberello che vorrebbe riempirsi di verde, cominciano a cadere foglie che non hanno avuto neanche il tempo di conoscere le grazie dell’autunno.
Di fronte all’impossibilità di dirsi per quello che è, il ragazzo si annienta in un mare di avventure occasionali. Forse anche per il fatto che già alla prima, con un commesso di un negozio non troppo lontano da casa, il saluto dopo il sesso è all’insegna di un “sappiamo tutti e due chi sei e chi è la tua famiglia” che è peggio di una pietra tombale.
In questo modo, il sesso, sperimentato nella sua forma spesso più anonima, letteralmente col primo che passa, diventa un modo per scoprire, attraverso l’altro, un altro sé diverso. Pierpaolo ha bisogno dell’altro da sé per capirsi (e in questo, il romanzo segue le dinamiche più classiche del bildungsoman), ma il suo è un riconoscersi per subito perdersi perché la felicità dell’autoaffermazione comporta la perdita di meschini privilegi familiari cui gli pare impossibile rinunciare. E, in fondo, perché poi? Non è mica che i genitori non gli vogliano bene a modo loro visto che per lui hanno fatto e hanno costruito.
Come per Pasolini, quindi, anche per Pierpaolo (nomen omen, in fondo) il rapporto (anche carnale) con l’altro è fondamentale per cominciare a diventare adulto. Per il poeta delle borgate romane, però, l’altro (quando amato) è sacro e raggiungere la consapevolezza di sé non può non portare allo scandalo dell’auto crocifissione, per il protagonista di Il primo che passa, invece, è l’altro che va immolato alla tragedia della sua impossibilità di essere. Per questo, il ragazzo si aggira spaesato tra le tante storie vissute fugacemente con inesausta fame di un affetto più vero, facendo più male alle persone che più lo amano perché, in fondo, sa di essere indegno di quell’amore perché ricambiarlo richiede un troppo grande atto di coraggio. Pierpaolo si ritrova, perciò, sempre più solo in questa che sarebbe una tragedia se riuscisse a concedersi il lusso di uno straccio di catarsi. Un lusso cui né il personaggio né il mondo nel quale vive possono aspirare.
Romanzo d’esordio di Gianluca Nativo, Il primo che passa (Mondadori, 2021) si rivela lettura di straordinario interesse. Con stile asciutto e sicuro, l’autore padroneggia una materia non facile, riuscendo a entrare nel vissuto di un personaggio poco o per nulla simpatico che colpisce sempre più o ogni pagina che passa, per la sua straordinaria carica di verità.
Il romanzo ha la forza dei film d’autore di qualche tempo fa, di quelli che non si spaventavano di fronte alla prospettiva di sporcarsi le mani con quell’umanità che non smette di essere tale neanche nel fango delle periferie. Innocente dalle mani sporche, Pierpaolo è un personaggio memorabile che non ci abbandona tanto facilmente anche a giorni dalla lettura dell’ultima pagina. Se auguriamo a lui e al suo autore di non incontrare mai le strade del cinema a caccia di storie, è solo perché la produzione di oggi si è a tal punto appiattita sui canoni consolatori del racconto edificante da non saper più restituire tanta complessità. E sarebbe un peccato mortale vedere un romanzo del genere ridotto a un Gomorra qualsiasi.
Autore: Gianluca Nativo
Titolo: Il primo che passa
Editore: Mondadori
Collana: Strade blu
Dati: 216 pagine, brossura con alette
Anno: 2021
Prezzo: 17,00 €
Isbn: 9788804735250
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