Il quadro rubato di Pascal Bonitzer

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C’è una lunga tradizione di film, basati su fatti reali oppure completamente inventati, incentrati sulle avventurose vicende legate a dipinti rubati. I film basati su fatti reali hanno non di rado a che fare con le vicende accadute durante il Nazismo, quando il regime, nel 1937,  fece esporre a Monaco le opere di quella che venne battezzata “entartete Kunst”, ovvero arte degenerata, opere di avanguardia, nonché opere create da artisti di origine ebraica. Poi ci fu la guerra e a questi disastri vennero ad aggiungersene altri: quadri distrutti, bruciati, rubati, dati in modo definitivo per smarriti, e poi: improvvise ricomparse, magari dall’altra parte del mondo etc. Pensiamo a Woman in Gold (2015), e al quadro omonimo, nella categoria dei film più riconducibili al paradigma storico; pensiamo invece all’inventatissimo Boy with Apple dell’inventatissimo Johannes van Hoytl in Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson, se vogliamo riferirci a qualcosa di puramente fictional.

È con certezza all’interno del prima paradigma  che viene a situarsi la vicenda raccontata da Pascal Bonitzer (1946), sceneggiatore celeberrimo (almeno una cinquantina di film, fra cui opere di René Allio, André Techiné, Jacques Rivette, Chantal Akerman, Benoît Jacquot, Catherine Breillat e molti altri) e regista non esattamente famoso: neanche una decina di film nell’arco di trent’anni, nessuno che si ricordi davvero a parte forse  Piccoli tradimenti (Petites Coupures, 2003) o Alibi e sospetti (Le Grand Alibi, 2008, da Agatha Christie, coprodotto e distribuito anche in Italia).

Questa volta Bonitzer ce l’ha fatta ad arrivare anche nelle nostre sale, grazie alla distribuzione di Satine Film che prova a sfruttare le potenzialità di un argomento sempre interessante, denso di implicazioni storiche, anche perché, lo ribadisco, basato su una storia realmente avvenuta.

La vicenda scorre per la prima parte in parallelo: da un lato, a Parigi, André Masson (Alex Lutz) il responsabile di una casa d’aste, un uomo parecchio antipatico e arrogante (capiremo nel corso del film che la sua è solo una maschera, stiamo in fondo parlando di un uomo finito, disperato, alcolizzato) e del suo rapporto con la stagista Aurore (Louise Chevilotte), costantemente maltrattata se non mobbizzata, e con la ex moglie Bettina (Léa Drucker); un uomo alla perpetua ricerca di un colpo da mettere a segno all’interno di un ambiente di lavoro, fatto di squali, dove deve costantemente legittimarsi. Dall’altro la vicenda  si sposta nella città alsaziana di Mulhouse dove vive una famiglia che potremmo senza tema di smentita definire proletaria, una madre vedova (Laurence Côte) con il figlio Martin (Arcadi Radeff) che fa l’operaio. Tramite una serie di fortunose e all’apparenza improbabilissime circostanze, nella casa dove si ritrovano ad abitare è appeso niente meno che un quadro del grande pittore austriaco Egon Schiele (1890-1918), un quadro bellamente ignorato dai suoi – fino a prova contraria – legittimi proprietari, un quadro da tutto il mondo dato per definitivamente perduto, distrutto, bruciato etc, un quadro dipinto all’inizio della guerra, ispirato ai girasoli di Van Gogh, declinato in una versione malinconico-antibellicista un quadro che infatti si intitola, in tedesco Sonnenblumen.

Le due vicende a un certo punto si legano e si complicano, allorché André vuole accaparrarsi il quadro per poterlo mettere all’asta e si trova a dover combattere con varie istanze che secondo diversi intendimenti provano a boicottare o quanto meno a condizionare il suo intento: l’avvocatessa (Nora Hamzawi) che rappresenta il ragazzo, uno spregiudicato collezionista tedesco che lo vuol acquistare a un prezzo molto basso, il legittimo proprietario, erede del mercante d’arte d’origine ebraica che a suo tempo aveva acquistato lo Schiele, e via dicendo, a tutto questo vengono ad aggiungersi le complesse relazioni private che ruotano intorno ad André, ma anche ad Aurore e a Martin, con una tendenza alla divagazione che verrebbe spontaneo immaginare come la sezione più riconducibile alla fiction dell’intero plot. Ché, invece, la vicenda principale si basa su un evento realmente accaduto in Francia fra il 2003 e il 2005, all’interno del quale, com’è normale, la casa d’aste (Christie’s, ma qui invece si chiama Scottie’s, omaggio a Hitchcock? un po’ Vertigo, e il quadro al Palazzo della Legion d’Onore a San Francisco, un po’ l’asta di Intrigo internazionale ) incassa una bella cifra, ma – ed è la cosa più sorprendente – anche il ragazzo, nella cui casa è stato ritrovato il dipinto, riceve il 10% del prezzo di vendita, per gentile concessione, per gratitudine degli eredi.

L’interazione fra la vicenda principale e i detour privati non sempre funziona, la contrapposizione fra gli esponenti di una classe benestante e blasé e il proletariato di provincia sembra un po’ banalotta, ma il film ha un buon ritmo, il cast è composto da attrici e attori piuttosto bravi.

In sala dall’8 maggio 2025.


Il quadro rubato (Le tableau volé) – Regia: Pascal Bonitzer; sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Iliana Lolic; fotografia: Pierre Milon; montaggio: Monica Coleman; interpreti: Alex Lutz (André Masson), Léa Drucker (Bettina), Louise Chevilotte (Aurore), Arcadi Radeff (Martin); produzione: SBS Production; origine: Francia, 2024; durata: 91 minuti; distribuzione: Satine Film.

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