Il successo tardivo di Jacques Audiard: qualcosa su Emilia Perez

Non si può certo dire che la critica internazionale si sia accorta solo adesso di Jacques Audiard (1952), ma si ha la sensazione che solo con Emilia Pérez il regista francese abbia ottenuto, con un certo ritardo, la definitiva consacrazione come uno dei più importanti registi europei fra quelli nati negli Anni Cinquanta del ‘900. Ho come l’impressione che fin qui – al di fuori della Francia – si ritenesse Audiard certamente un ottimo regista, autore di film, che venivano regolarmente distribuiti in giro per l’Europa e anche negli USA, ma in fondo lo si considerasse un outsider un po’ ostico specializzato in variegate commistioni fra diversi generi, senza una specificità o, se proprio vogliamo usare l’espressione, una “cifra autoriale” riconoscibile, paragonabile, per restare al cinema europeo e ad autori nati fra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ‘50, che so io a Pedro Almodóvar (melodramma), ai fratelli Dardenne (cinema a sfondo sociale con insistito uso di steady cam), Aki Kaurismäki (film esistenzialistico-surreali), Lars von Trier (melodrammi ma anche molto altro, con cifra autoriale certificata attraverso reiterate trilogie). Prova ne sia che, mentre per gli autori citati, esiste una bibliografia molto corposa, segno di un interesse accademico, sull’opera di Audiard, a quanto vedo, è uscita una sola monografia, di una studiosa australiana (Gemma King) pubblicata nel 2021 presso la Manchester University Press nel all’interno di una consolidata collana dedicata ai registi francesi. Nessuna biblioteca italiana, stando al catalogo OPAC, lo ha acquistato.

È curioso che un regista pur sempre vincitore della Palma d’Oro a Cannes (per Dheepan- Una nuova vita nel 2015) e di ulteriori premi alla Croisette: migliore opera prima (in realtà seconda) per Un héros très discret nel 1996,  Gran Premio della Giuria per Il profeta nel 2009 e di nuovo per Emilia Pérez nel 2024, di una quantità industriale di César (ne ho contati di riconducibili a Audiard la bellezza di 10), nominato per quattro volte agli European Film Awards, che vince solo al quarto tentativo, di nuovo con Emilia Pérez con – se vogliamo – il film meno europeo di tutti, vincitore a numerosi altri festival, fra cui Londra, Newport, Siviglia, Valladolid, Venezia (premio alla regia nel 2018 per I Fratelli Sisters) giunga per la prima volta, a 72 anni, a quel livello di notorietà, al quale i registi summenzionati erano arrivati neanche trentenni. È vero che il primo film Audiard lo gira a 42 anni nel 1994 (Regarder les hommes tomber), ma Emilia Pérez  è pur sempre il suo decimo film.

I fratelli Sisters

Tutto lascia pensare che le ragioni principali di questa tardiva consacrazione siano sostanzialmente due: 1) Audiard NON è come lo è Almodóvar, come lo è Kaurismäki, come lo è von Trier, come lo sono i fratelli Dardenne IL regista rappresentante di UNA nazione (Spagna, Finlandia, Danimarca, Belgio), di cui si fa fatica o comunque non viene immediatamente spontaneo indicare un secondo nome, mentre fa parte della più potente cinematografia europea, quella francese, dove anche restando ai registi, potenzialmente riconducibili al paradigma autoriale la concorrenza è notevolissima: Oliver Assayas (1955), Luc Besson (1959), Catherine Breillat (1948), Laurent Cantet (1961), Leos Carax (1960), Arnaud Depleschin (1960). Bruno Dumont (1958) – e sono solo arrivato alla lettera D; 2) la contiguità di Audiard con un cinema di genere sporco, a tratti addirittura con il B-Movie, con una marcata sperimentazione che abbraccia davvero molti generi classici del cinema francese, dal polar al gangster-movie, per arrivare, nel suo terzultimo film (I Fratelli Sisters) a cimentarsi in quello che resta il suo primo film non in lingua francese con uno dei generi classici del cinema di Hollywood  ovvero il western.

Paradossale (o forse no) è il fatto che Audiard venga a essere consacrato proprio nel momento in cui si emancipa del tutto dalla sua origine, nel momento in cui, oltre a girare in un’altra lingua (in questo caso lo spagnolo), gira l’intero film in un altro paese, esce completamente dalla Francia, si dedica a una storia da un lato di portata universale (la battaglia per l’identità di genere all’inizio, la lotta in nome dell’amore paterno/materno nella seconda parte del film) e dall’altro con numerosi risvolti di politica e di società locale (il Messico con narcotrafficanti e desaparecidos), utilizzando come strumento un musical moderno che ricorda a tratti quelli di Lin-Manuel Miranda, per restare alla tradizione ispanica: insomma un film con un gradiente clamorosamente alto di globalizzazione, che sembrerebbe quasi studiato a tavolino, ovvero pensato per raggranellare premi, in Europa (dove ha preso cinque European Awards: film, regia, sceneggiatura, montaggio e miglior attrice alla transgender spagnola Karla Sofia Gascón) ma soprattutto negli USA, visto che nei Golden Globes ha spopolato (anche qui 5 premi), e si può pensare che anche agli Oscar qualcosa di importante lo prenderà.

Emilia Pérez è con certezza un ottimo film, avvincente, divertente, commovente, ma forse, al di là della indiscutibile originalità del tema, è il film più tradizionale di Audiard, soprattutto in termini di sceneggiatura che ha la precisione di un meccanismo a orologeria, laddove tutti i suoi film precedenti erano pieni di ellissi, di ripetizioni, volutamente sporchi, ostici e disturbanti. Il primo atto che ruota intorno alla domanda: riuscirà Rita, l’avvocatessa, a portare a termine l’impresa affidatale da Manitas, il capo narcotrafficante che vuole cambiare sesso? Il secondo atto: riuscirà Emilia, che con l’aiuto dell’avvocatessa ha fatto riportare in Messico l’ex moglie Jessi e i figli, fingendosi la cugina del defunto marito, a redimersi con la creazione di una ONG volta a rintracciare e a dare degna sepoltura alla mèsse di desaparecidos in giro per il Paese, molti dei quali divenuti tali per causa sua e della sua gang? Qualcuno ne scoprirà la vera identità? Il terzo atto: come riuscirà a tenersi i figli, dopo che l’ex moglie ha deciso di risposarsi e di portarseli dietro nella nuova casa, insieme al nuovo marito? Che ruolo giocherà in quest’impresa l’avvocatessa che fin qui aveva brillantemente svolto tutti gli incarichi affidatile da Manitas prima e da Emilia poi? Come ogni sceneggiatura che si rispetti anche Emilia Pérez è pieno di false piste, per esempio più di una volta viene spontaneo immaginare che fra Emilia e Rita possa nascere qualcosa, la storia fra Emilia ed Epifania sembra condurre il film verso la creazione di un nuovo nucleo famigliare diverso etc, ma poi la cosa non accade. Ferma restando questa “normalizzazione” sul piano drammaturgico, che, insieme all’indubbia attualità a tratti modaiola del tema (curioso che due film recentissimi e diversissimi come Emilia Pérez e Conclave celebrino la fiera affermazione di una identità sessuale altra in due mondi così refrattari come il mondo della chiesa e quello del crimine), sancisce le ragioni del successo planetario del film di Audiard, può essere opportuno, per chi non avesse presente l’intera filmografia del regista francese, segnalare almeno tre aspetti che possono invece essere comodamente essere ricondotti all’intera sua filmografia: in prima battuta la centralità foucaultiana di una biopolitica dei corpi martoriati, presente si può dire in tutti i film da Sulle mie labbra a Un sapore di ruggine e ossa, da Dheepan- Una nuova vita al Il profeta, fino ai moncherini di Joachim Phoenix ne I Fratelli Sisters, una fascinazione profonda per il mondo del crimine (anche qui gli esempi sono innumerevoli) e, come attitudine antropologica di base, un pessimismo piuttosto radicato che si nega a qualsivoglia happy end, che il regista elargisce solo a prezzo di immani perdite strada facendo. Nel finale di Emilia Pérez Audiard concede l’anagnorisis di marito e moglie in articulo mortis e la beatificazione postuma della protagonista. Ma neanche questo è un happy end.

In sala dal  9 gennaio 2025


Emilia Pérez – Regia e sceneggiatura: Jacques Audiard; fotografia: Paul Guilhaume; montaggio: Juliette Welfling; musica:  Clément Ducol (score), Camille (canzoni); coreografia: Damien Jalet; interpreti: Adriana Paz, Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Zoe Saldaña, Édgar Ramírez, Mark Ivanir; produzione: Why Not Productions, Page 114, Pimienta Films, France 2 Cinéma, Saint Laurent Productions; origine: Francia/Messico, 2024; durata: 130 minuti; distribuzione: Lucky Red.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *