Volendo passare in rassegna, con colpevole superficialità, la Storia della Resistenza tedesca al Nazismo, soffermandoci in particolare su che cosa il cinema soprattutto tedesco ne abbia fatto, sono sostanzialmente tre le vicende che vengono in mente e che sono state più spesso rappresentate.
Al primo posto viene il gruppo monacense d’ispirazione cristiana della Rosa Bianca (Die weiße Rose), quello dei fratelli Hans e Sophie Scholl, giustiziati nel 1943, a cui sono stati dedicati almeno due film, quello di Michael Verhoeven del 1982, intitolato appunto Die weiße Rose (La rosa bianca) e quello di Marc Rothemund del 2005 Sophie Scholl- Die letzten Tage (La rosa bianca – Sophie Scholl), 2 Orsi d’Argento a Berlino nel 2005 (regia e attrice: Julia Jentsch) e candidato all’Oscar.
Poi vengono in mente i due attentatori a Hitler, uno nel 1939 e e l’altro nel 1944: mi riferisco al meno noto Georg Elser e soprattutto al conte Claus Schenk von Stauffenberg. Sia su Elser che su Stauffenberg esistono diversi film; sul primo uno del 1989 con e di Klaus Maria Brandauer, nonché uno del 2015 di Oliver Hirschbiegel, il regista che qualche anno prima aveva girato La caduta. Su Stauffenberg e l’attentato a Hitler del 1944, i film sono tantissimi: da Accadde il 20 luglio diretto da Georg Wilhelm Pabst fino a Operazione Valchiria del 2008 con Tom Cruise.
Per carità di film su singoli episodi di resistenza, basati più o meno su materiale documentario, ce ne sono moltissimi, quel che finora mancava, era un film, con buone potenzialità distributive, su un altro gruppo, nella coscienza collettiva internazionale, assai meno noto della Rosa Bianca, ossia il gruppo della cosiddetta Rote Kapelle (che significa Orchestra Rossa).
Si tratta di un gruppo oltremodo composito con diverse ramificazioni e il cui nome è, spregiativamente, stato coniato dalla Gestapo, con il “rosso” a significare, com’è ovvio, le simpatie comuniste. Alle azioni di piccolo sabotaggio, volantinaggio, la Rote Kapelle, soprattutto la “sezione” berlinese, aggiungeva un lavoro capillare quanto, purtroppo, in larga parte inutile di trasmissione di messaggi in codice Morse ((i telegrafisti li chiamavano pianisti, di qui poi il passaggio al termine “orchestra”). I destinatari di questi messaggi erano vari: soldati tedeschi prigionieri in Unione Sovietica, esponenti, sembra, dello spionaggio sovietico, parenti dei soldati da rassicurare, o comunque persone raggiungibili da messaggi che contribuissero a sabotare il trionfalismo hitleriano fra la fine degli anni ’30 e la sconfitta di Stalingrado. Il gruppo berlinese ruotava intorno all’ufficiale della Luftwaffe Harro Schulze-Boysen e all’economista Arvid Harnack e, comprendeva stando alle ricerche storiche, ancora molto attive, un centinaio di persone. Il colore presente nella denominazione affibbiata dalla Gestapo corrispondeva, seppur solo in parte, al vero, alcuni erano sì comunisti, ma c’erano persone di altre convinzioni politiche, oltreché delle più diverse classi sociali.
Ma quel “rosso” ha comunque impedito, negli anni in cui la Germania era divisa, che a Ovest ci si occupasse di questo gruppo. Diverso invece il trattamento ricevuto dalla Rote Kapelle in DDR: i componenti o comunque alcuni dei componenti sono stati studiati, analizzati, ad alcuni di loro sono state intitolate strade e scuole, con un atteggiamento non di rado eroicizzante, un eroismo forse anche superiore a ciò che i membri hanno di fatto potuto, saputo raggiungere. La Rote Kapelle in DDR faceva parte del canone scolastico antifascista; sul piano cinematografico, tuttavia, anche in DDR si è fatto ben poco, se si esclude un film non proprio famosissimo del 1970.
Non si può dunque non salutare con piacere il fatto che, arrivato a 60 anni, il regista Andreas Dresen, non a caso, formatosi in DDR abbia deciso di dedicare a due fra i più noti esponenti della Rote Kapelle, ovvero ai coniugi Hans e Hilde Coppi (già al centro di diverse sequenze di un grande romanzo/saggio novecentesco ossia L’Estetica della Resistenza [1975-1981] di Peter Weiss), un lungo, forse troppo lungo film, intitolato appunto In Liebe, Eure Hilde (Con amore, vostra Hilde). In realtà più che la coppia è Hilde Coppi (interpretata dall’eccellente Liv Lisa Fries, la Charlotte di Babylon Berlin, già adesso candidata all’Orso d’Argento come migliore interprete principale) al centro del film.
La scelta apprezzabile ma alla fine cogente di Dresen è quella di demitizzare gli eroi, in particolare l’eroina, di farla scendere da quel piedistallo su cui la (sua) storia patria l’aveva issata. Per ottenere questo obiettivo Dresen e la sua fida sceneggiatrice Laila Stieler mette in atto due strategie. La prima è la sistematica rottura del continuum narrativo, al fine di tenere costantemente vigile l’attenzione dello spettatore che deve continuamente domandarsi in che punto della storia si sta trovando, una versione edulcorata di ciò che il buon vecchio Brecht chiamava effetto di straniamento. Il film, come ha racconta Dresen, è girato in sequenza, ma è stato montato saltando di continuo da un tempo all’altro della narrazione. L’altra tecnica utilizzata per provocare lo scoronamento dell’eroina (e più in generale dei componenti del gruppo su cui si concentra il racconto) è l’accentuazione della dimensione giovanile, a tratti se vogliamo addirittura goliardica del plot, questi giovani che nutrono seri (seppur ingenui) propositi di opporsi, di resistere al regime vogliono, nei limiti del possibile, al contempo anche divertirsi. Questa dimensione, tuttavia, risulta un po’ troppo presente nel film, troppi bagni al lago, troppe gite in sidecar, troppi flirt che finiscono per conferire a questo film su una pagina buissima della storia tedesca momenti di spensieratezza che francamente appaiono fuori luogo. Anche se poi, di contro, si apprezza la totale assenza di tutta una serie di cliché tipici dei film ambientati nel periodo nazista: niente svastiche, stivali, botte da orbi, marce etc. Sempre per restare alla rappresentazione dei carnefici o diciamo di chi nel regime era perfettamente integrato, anche in questo Dresen pare evidentemente interessato a fornire una rappresentazione un po’ più sfumata del solito, per esempio nella rappresentazione della secondina Anneliese Kühn (interpretata da Lisa Wagner, che faceva la sorella di Alex in Goodbye, Lenin!) o del pastore Harald Poelchau (interpretato da un attore caro a Dresen come Alexander Scheer).
Due parole sul plot, che peraltro in larga parte è Storia: Hilde Coppi è un impiegata di famiglia piccolo-borghese e conosce Hans, si lega a lui sia politicamente che sentimentalmente, strappandolo ad altre contendenti che, a loro volta, fanno parte del gruppo. Si separa dallo storico fidanzato ebreo, che non si sa dove sia. Impara a mandare e decrittare messaggi telegrafici. E al pari di tutti gli altri e le altre ben presto viene catturata, già nel settembre del 1942. Gran parte del film si svolge in carcere, Hilde vi arriva in stato di avanzata gravidanza, in novembre partorisce il figlio che chiama con lo stesso nome del marito, cioè Hans. Il marito viene giustiziato già prima di Natale. A Hilde viene lasciato il tempo, in segno di clemenza, di allattare il figlio. Chiede la grazia a Hitler che gliela nega. Il 5 agosto del 1943 viene ghigliottinata, dopo aver dettato l’ultima lettera al pastore, che si chiude appunto con le parole di cui al titolo.
Nell’insieme, al netto dei difetti indicati (troppi momenti spensierati, troppi continui salti temporali) e di una eccessiva lunghezza si tratta di un film apprezzabile che ha buone possibilità, stanti i paradigmi distributivi vigenti, di essere distribuito anche in Italia.
In Liebe, Eure Hilde; regia: Andreas Dresen; sceneggiatura: Laila Stieler; fotografia: Judith Kaufmann; montaggio: Jörg Hauschild; interpreti: Liv Lisa Fries (Hilde Coppi), Johannes Hegemann (Hans Coppi), Lisa Wagner (Anneliese Kühn), Alexander Scheer (pastore Poelchau); produzione: Pandora Film Produktion; origine: Germania 2024; durata: 124′