Presentato l’anno scorso in apertura della sezione “Un Certain Regard” del 75° Festival di Cannes, Io sono tuo padre (Tirailleurs) di Mathieu Vadepied ci catapulta sul fronte franco-tedesco della Grande guerra, e per la precisione nell’area-teatro dei violenti avvenimenti di quella che va sotto il nome della “battaglia di Verdun”.
Qui l’esercito francese è composto da soldati, reclutati con la forza, nell’Africa subsahariana. Protagonisti sono Bakary (Omar Sy) e Thierno (Alassane Diong), rispettivamente padre e figlio, abitanti di un piccolo villaggio del Senegal. In verità è Thierno (appena diciassettenne) a essere stato “rastrellato” dalle forze francesi per fare il soldato, mentre il padre, per non lasciare andare solo il figlio, s’aggrega. E così i due destini s’uniscono alla volta delle loro disavventure. Lì, al di là degli stretti affetti familiari e di una vita condotta seguendo i dettami dell’antichissima saggezza tramandata dagli avi, oltre i confini del mondo noto grazie alla pastorizia, li attende il fronte armato di chi si contende territori al fine di ampliare ancora di più lo “spazio vitale”.
E proprio al possibile senso e significato della terra che ci fanno immediatamente pensare le prime immagini del film. Che si aprono mostrando due militari intenti a scavare un pezzo di terra. Riesumeranno ossa umane appartenenti a otto militi ignoti, di provenienza africana, che sotto l’uniforme francese avevano servito “la patria”. A queste sequenze seguono quelle dei nostri due protagonisti mentre fanno ritorno a casa dopo una giornata trascorsa al pascolo. Una bestia ha bisogno di cure: si ritrova infatti un corpo estraneo nello zoccolo. E dimostrando pazienza e devozione Bakary insegna al figlio come estrare con delicatezza la spina senza infastidire troppo l’animale. Ecco il gesto di cura universale da parte dell’uomo verso la terra che a sua volta ricambia offrendo i suoi molteplici frutti. La terra va protetta e adorata, va servita e riverita perché permette la sopravvivenza a tutti gli esseri viventi.
Da lì a poco la stessa terra diventa palcoscenico di atti inverecondi e dissennati, dell’assurdità più assoluta: la guerra. Ovvero quello scontro violento e cieco tra simili che fa versare solo sangue a chi sa solo offendere la terra e, in fondo, sé medesimo. Il sudore sui capi dei soldati non è quello della fatica del lavoro dei campi che vuol dire arare per far crescere, innaffiare per nutrire, potare per rinvigorire. No. È il sudore freddo tipico del sentimento della paura, dell’orrore che traspare già nello sguardo ma si annida prima tra le pupille degli occhi, della “folle gloria del comando”, insomma di quello “stesso identico umore” che si differenzia solo tra chi usa qualche “premura” e “chi non ricambia la cortesia”. Di questo è fatto il sudore di un militare, di questo quello che scorre dalla fronte fin giù sulle guance dei volti di Bakary e di Thierno oramai abbigliati con la divisa. Ma c’è poco da pensare lì al fronte, poco da filosofare. Adesso coi piedi che calpestano quel campo esplosivo lo scontro avviene anche tra i due protagonisti. Il padre veste sì quella divisa, ma non si lascia ammaliare (proprio come fa Ulisse con le sirene) dai tanto promessi “orizzonti di gloria”, molto ingannevoli sin già nelle loro premesse. Il suo compito è proprio quello di tappare le orecchie al figlio e cercare di non farlo catturare dal volere dei falsi miti. E proprio così accade. Padre e figlio alla fine si dividono e proseguono lo scenario della trincea divisi dopo uno alterco violento. Per fortuna, l’abbandonarsi dura, come dire, l’attimo della lucidità. Sì, perché proprio di trasparenza si tratta, quella limpidezza che a volte fa vedere bene ciò che ci circonda. Infatti, Bakary torna indietro, sui suoi passi, e salva la vita al figlio dall’ennesimo assalto invasato. Ma perde la sua, davanti agli occhi di Thierno che lo tiene stretto a sé tra le sue braccia nel pieno di una bufera di colpi e cicloni d’esplosioni mentre la terra (sì ancora la terra) salta di continuo, aprendo squarci sul terreno che si dissolve in aria, andandosi poi a posare sui corpi esanimi dei morti come quelli ancora respiranti dei vivi. Dei due sarà l’unico a rientrare a casa, da sua madre e sua sorella, nel villaggio natio. Per lui c’è stato ritorno. Ma da lì cosa riporta con sé? In una sola parola, oggi forse troppo grande da pronunciare, l’esempio.
Forse in ciò lo spettatore trova tutto il valore del film di Mathieu Vadepied. La vita come esempio, quella forma tanto laica quanto religiosa attraverso cui provare a fare qualche errore di meno. Pensarsi sempre come esempio, ovvero non smettere mai di credere responsabilmente nei compiti di chi è più grande d’età, di chi ha qualche esperienza in più da mettere in comune, da offrire in dono perché si è interiormente mossi da una viva convinzione, e non da uno sterile desiderio di ricompensa. Ecco allora la possibile esigenza che ha portato a realizzare quest’opera. Al di là di cogliere l’occasione per ricordare fatti storici che hanno segnato il secolo scorso, che ha visto orrori perpetuati dovunque, il segreto di questa opera forse si raccoglie nell’evidenziare l’importanza dell’esempio di uno genitore per chi è nato dopo. Io sono tuo padre è così un lavoro che torna a porre al centro la questione antica mai chiusa del rapporto tra generazioni diverse.
In sala dal 24 agosto 2023
Io sono tuo padre (Tirailleurs; titolo internazionale: Father & Soldier) – Regia: Mathieu Vadepied; sceneggiatura: Olivier Demangel, Mathieu Vadepied; fotografia: Luis Armando Arteaga; montaggio: Xavier Sirven; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Omar Sy, Alassane Diong, Jonas Bloquet, Bamar Kane, Oumar Sey; produzione: Bruno Nahon, Omar Sy per la Unité Korokoro; origine: Francia/Senegal, 2022; durata: 109 minuti; distribuzione: Altre Storie con Minerva Pictures.