Je n’avais que le néant – “Shoah” par Lanzmann di Guillaume Ribot (Berlinale Special)

  • Voto
Shoah di Claude Lanzmann

“La Shoah è l’annullamento della distanza tra passato e presente”. Così dice la voce narrante di Claude Lanzmann, autore del noto monumentale documentario, che ha fatto scuola rispetto al genere, Shoah (1985, titolo oggi aggiunto nel registro della memoria del mondo dell’UNESCO). Lanzmann impiegò 12 anni per girare questo suo lavoro, recandosi in diversi paesi e continenti alla ricerca di testimonianze da parte di sopravvissuti, vittime e carnefici all’Olocausto. L’esito furono nove ore e mezzo di montaggio e, come un fiume che scorre lento, questo film resta una pietra miliare sia per il senso del cinema sia per tentare di raccontare quella che Primo Levi ha definito “l’esperienza fondamentale” relativa all’umanità. Di questo “compito”, rimasero non montati quasi 220 minuti di girato che andarono a finire in archivio. Oggi, grazie al lavoro del regista francese Guillaume Ribot, in collaborazione con la Fondazione che porta il nome di Lanzmann, 94 di questi minuti sono diventati Je n’avais que le néant – “Shoah” par Lanzmann.

Presentato nella sezione “Berlinale Special” (per l’occasione è stato anche riproiettato il documentario originale del 1985), questo film ci ha lasciati ipotizzati. Se si pensa ai tempi che stiamo attualmente vivendo poi… La forza di Lanzmann, la sua indefessa ricerca di persone legata a quell’esperienza, la sua convinzione che da lì ne sarebbe rinvenuto qualcosa di utile per tutti è a dir poco commovente. Chi scrive prova a seguire un filo qui a seguire per rendere l’idea di questo essere rimasti come calamitati davanti allo schermo. Certo con non poco imbarazzo, ma sapendo anche che esso debba essere in qualche modo superato. Prima di tutto il dialogo, l’inseguire la necessità che ci si parli. Una grande lezione questa di Lanzmann anche da questo punto di vista. Dialogare non risolve la vita, ma permette di instaurare quello “spazio-tempo tra due o più persone” dove l’umano può provare a ritrovarsi, a riflettere su sé stesso, a fermarsi doverosamente un attimo in più. Tutto il film ci racconta di questa esigenza che si fa subito pretesa urgente, non tanto di chiarimento, quanto di esercizio nobile della ragione e del cuore insieme. Qui è il viaggio per incontrarsi che conosce la forma più prossima al movimento che è la vita umana. Ecco, l’incontro come possibile riconoscimento di tutto quello che è stato nell’infinito presente che siamo. E non c’è altra via possibile se non incontrarsi appunto. Questo, tra l’altro, testimonia il lavoro di Lanzmann. Il non-detto non fa che alimentare non tanto la dimenticanza di ciò che è stato, quanto abitua in malo modo a comportarsi in maniera indifferente nei confronti di tutto ciò che ci circonda. È diseducativo, è da falsi maestri per intenderci. Bisogna insistere nel cercarsi, nel ridiventare Zoon Politikon (Aristotele). Bisogna attraversare il volersi nascondere, il rintanarsi, e così tentare di risalire alla luce del sole e condividere tutto senza più sconti. Altrimenti porteremo dentro con noi, ognuno di noi, il segreto e sarà l’ennesima certificazione della disfatta. Solo nello spazio-tempo dell’aver in comune è possibile iniziare a provare a capire. Lanzmann, in quelle immagini in movimento del suo film, incarna questo. Nulla lo fermò, e giunse dappertutto pur di innescare il coraggio di prendere parola. Un esempio rarissimo insomma. La presenza dei luoghi adesso. Della Polonia soprattutto, terra che ha assistito all’orrore come nessun’altra forse. Vedere anche i treni, negli anni ’80 del secolo scorso, ancora lì fermi sui binari morti probabilmente è l’effetto che più esprime lo sconforto. Lunghe sono le scene in cui Lanzmann si sofferma a inquadrarli da fermi, vuoti e allo stesso tempo pieni, scheletrici, abbandonati, ma pur sempre lì, tra le campagne, il lavoro quotidiano dei contadini e ragazzi che per caso si ritrovano nei dintorni. Sono immagini terribili, e Lanzmann chiede a un vecchio ferroviere anche di farli ripartire. E così vediamo come questi treni “viaggiavano”: un’esperienza indescrivibile per lo spettatore. Ohne Worte. Per non parlare dell’abbondanza di fango che si vede in quelle campagne. E quell’impasto di acqua e terra, anche se cosa naturale, non può che far pensare alle condizioni in cui milioni e milioni e milioni … di nostri simili si sono trovati a “vivere”. Il rumore dei pneumatici dell’auto di Lanzmann mentre lentamente battono quei selciati e quello delle scarpe dei contadini polacchi che camminano mentre vengono intervistati è assordante. Cercando di concludere, anche perché scrivere in questo caso sembra ancora più presuntuoso (come sempre forse è l’atto della scrittura), usciamo dalla sala qui a Berlino, di sera col freddo d’inverno tipico della città, con una piccola consapevolezza: il cinema può fare la differenza, almeno dare una forma possibile, anche se solo per un momento, all’indicibile. Probabilmente la forma più credibile, più abitabile per noi. E chi scrive davvero si ferma qui, perché oltre non si sente di andare.


Je n’avais que le néant – “Shoah” par Lanzmann; Regia sceneggiatura: Guillaume Ribot; fotografia: Adrian Silisteanu; montaggio: Svetlana Vaynblat; interpreti: Claude Lanzmann (se stesso), suoi collaboratori, vittime, testimoni e carnefici dell’Olocausto; produzione: Les Films du Poisson (Parigi), Les Films Aleph (Parigi); Produttore: Estelle Fialon, Dominique Lanzmann; origine: Francia, 2025; durata: 94 minuti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *