Jean-Louis Trintignant, il silenzio dopo l’ultimo close-up

Nella sua schietta, struggente autobiografia in forma di lunga intervista con André Asseo, dal titolo preciso e dritto come un colpo al cuore (Alla fine ho deciso di vivere, pubblicata in Italia da Mondadori nel 2012),  Jean-Louis Trintignant, scomparso ieri, 17 giugno, a 91 anni  – dopo un graduale, crepuscolare ritiro dal cinema in cui ha messo in scena la tragica ineluttabilità della morte e della vecchiaia  (gli speculari Amour e Happy end, entrambi diretti da Michael Haneke, dittico struggente di pietas laica e raggelato di beffarda lucidità) e concesso il canto del cigno, tra rimozione e memoria, alla sua più celebrata storia d’amore (I migliori anni della nostra vita, 2019, rivisitazione compiaciuta e nostalgica dell’ immaginario già un po’ leccato di Un uomo, una donna, sempre per la regia di Claude Lelouch) –  a un certo punto parla con la franchezza e la grazia che ne hanno sempre segnato il volto aperto, fuori e dentro i personaggi che ha interpretato, dello strazio interiore provato dopo la morte dell’adorata figlia Marie. Con la quale condivideva la passione sublime e sublimante per la poesia, e che venne uccisa dalle percosse del suo compagno, il cantante Bertand Cantat.

Il silenzio abissale in cui lo ha gettato quell’evento cosi innaturale per un genitore e per di più subito già in precedenza, con l’inspiegabile decesso della primogenita Pauline avvenuto quando la bimba aveva soli dieci mesi mentre dormiva in culla, trascende le parole e trasmette una tale vivida sensazione da essere quasi estirpato dalla pagina scritta e attaccarsi sulla pelle, sulle emozioni, sui pensieri.

E una volta che ci si è ripresi da quel brivido che ha raffreddato ogni pulsione di calore e tenerezza, è sempre lo stesso il dubbio che pone questo minuto, elegante attore dall’aspetto rassicurante e quasi ordinario come i ruoli che ha ricoperto in più di quarant’anni di film (di volta in volta studente,  funzionario, padre di famiglia, giudice, professore universitario): come riesce a muovere un sentimento così profondo e cristallino attraverso una presenza tanto minimalista e sfuggente?

Una parte della risposta a questo interrogativo va sicuramente ricercata nel respiro degli sguardi del cinema radicale, poetico e politico degli anni ’60, che ne ha filmato con attenzione non solo ogni sfumatura, espressione o gesto, ma perfino le parole e le pause, le esitazioni e gli slanci; esempio più luminoso e compiuto di questa fenomenologia della performance sottotraccia lo si deve ad Eric Rohmer che ne La mia notte con Maud fa di Jean-Louis, in un allusivo processo di identificazione tra le virtù e le contraddizioni del personaggio con l’ interprete fin dall’assegnazione dello stesso nome, il portavoce del conflitto essenziale e invisibile tra essere soggetti desideranti, compromessi e aperti alla trasformazione, e individui singolari rinchiusi nella monade dei loro principi, che utilizzano la retorica della dialettica per schiacciare l’audacia pulsionale dell’atto sotto la rigidità dell’etica, tra idealismo e pavidità. La tensione sessuale e intellettuale che lo spinge e lo fa ritrarre dalla Maud/ François Fabian, espressione di una vitalità e di una libertà senza compromessi o sovrastrutture, è talmente tangibile e percepita per contrappasso nel non concretizzarsi ma solo nell’enunciarsi in tutte le varianti possibili, da lasciare un segno indelebile nel modo in cui, da quel momento in poi (1969), si sarebbe raccontato qualsiasi altro rendez-vous transitorio o permanente non solo prosaicamente tra un uomo e una donna, ma tra due persone nella peculiarità e a tratti interscambiabilità di maschile e femminile .

Trintignant ha continuato poi a manifestare apertamente questo dissidio tutto interno nel porsi di fronte a scelte e responsabilità; aveva visto bene Bertolucci nell’assegnarli il ruolo di Marcello Clerici, Il conformista moraviano, autisticamente affiliato come esecutore di un delitto politico senza pathos e senza appartenenza nella cupa Italia del regime fascista, proprio per l’obliquità e l’indeterminatezza della sua identità di pirandelliano uno, nessuno e centomila. Eppure Valerio Zurlini aveva saputo inquadrarlo con un ‘altra sfumatura una decina d’anni prima , più fiammeggiante e appassionato, nelle fattezze di un ragazzo post pubertà che scopre la vertigine dell’eros sotto il sole ardente del caos anarchico di una Estate violenta (quella della 25 luglio 1943 in cui viene annunciata la caduta del governo Mussolini) e nella corrispondenza amorosa per la matura Eleonora Rossi Drago, vedova che mozza il fiato e fa esplodere il cuore e l’istinto. C’è sempre e comunque il richiamo ad un impegno,  un dilemma, un prendere posizione tra ragione e sentimento, convenienza e coraggio, egoismo e generosità; ma forse quello che è stato il passaggio di Jean-Louis nel flusso cinema non può essere contenuto solo  in questo elenco dicotomico di moti e di riflessioni. Senza mai scindere la maturità della persona da quella dell’interprete, con il tempo è andato a limare e a sfumare ancora di più la sua già naturale tendenza a lavorare in sottrazione con risultati di rara e trasparente bellezza, a cominciare dal Joseph Kern di Tre colori: Film rosso.

Forse era stato proprio Krzystof Kieslowski a trovare per Trintignant la misura tra lo stare visceralmente e insieme velatamente davanti alla mdp, facendo trasparire il tumulto dietro l’impatto bonario e burbero di uomo della porta accanto, il vecchio giudice solitario, arcigno, scostante, che attende l’incontro rivelatore e spiazzante con l’ alterità della determinata, intensa, splendente Irène Jacob, per abbattere il sistema controllante ed ossessivo messo in atto sulle vite degli altri attraverso lo spionaggio telefonico ed aprirsi ad un’autentica, liberatoria confessione, all’epifania entusiasmante della propria verità . E i primi piani sospesi e silenziosi di Trintignant, pur nella differenza di forma e sostanza che c’è tra Kieslowski, Haneke o Patrice Chereau (che in Ceux qui m’aiment prendront le train  lo volle per il personaggio di un patriarca defunto talmente narcisista e autor iferito da lasciare in vita la manifestazione del suo doppio, lo specchio/proiezione/riflesso di un fratello gemello), potrebbero essere montati l’uno accanto all’altro e costruire l’itinerario di un paesaggio umano segnato dal peso tangibile e quotidiano della vita e illuminato da una contemplazione,non mistica ma metalinguistica nel suggerire l’esistenza di un luogo segreto dentro cui celarsi o rivelarsi. Un’emanazione dello spazio e del tempo che, per essere percepita e vista, richiede la forza penetrante e rivelatrice del cinema come esperienza in fieri e come estenuante, nevrotica messa in discussione di ogni prospettiva su realtà e finzione (in questo senso estremamente significativa, anche se più ostica e impopolare, la collaborazione con Alain Robbe-Grillet in Trans-Europa-Express e soprattutto in L’uomo che mente).

Ed è proprio concentrando l’attenzione su uno di quei molteplici close-up d’autore che vorremmo congedare Jean-Louis, nella sua sobrietà sognante e tenera dove confluiscono, come sopra uno spartito neutro pronto a qualsiasi intima sonata o grandiosa sinfonia,  molti degli sguardi che hanno contribuito a generare la nostra affezione sentimentale ed intellettuale per la natura non indifferente delle immagini.

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