La confessione di Paul Schrader: Oh, Canada – I tradimenti

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L’Interrotron è uno strumento utilizzato nelle interviste che permette all’intervistato di aver davanti agli occhi il volto dell’intervistatore e viceversa. I due si possono guardare, pesarsi l’anima. E decidere se faccia ribrezzo o meno:

Emma, io voglio guardarti mentre parlo

C’è questo uomo che si alza dal letto di morte soltanto per condannarsi alla codardia. È nato americano, in fin di vita è canadese. Accanto ha una donna, l’opinione che questa donna ha di lui è per lui somma di una vita. Sono loro due a guardarsi attraverso l’interrotron.

Nel tiepidume dell’agonia, la mente di Leonard Fife è uno zabaione di sogni, incubi e pensieri, miscuglio nel quale i ricordi cadono confondendosi e perdendo valenza propria, e sopra di loro finisce per agire il giudizio, un giudizio su chi si è stati:

Voglio confessare, confessare tutto

È la ricerca della verità: spasmodica, continua e insistita, fino all’ultimo, verso se stesso e contro se stesso. Dopo una vita da documentarista e denunciatore di atti criminali verso l’umanità, Leonard non vuole più riprendere e giudicare il reale esterno, bensì il reale interno, cioè il proprio vissuto:

Vuole confessare che è un codardo, e che non ha mai amato davvero.

Farlo con episodi spiacevoli, farlo con episodi vaghi di tradimenti e di fuga. E lo vuoi confessare a lei, a Emma, la moglie. Lei che

So già tutto, quasi tutto.

E quel “quasi” è superfluo, perché lei veramente sa ciò che importa dell’uomo che ha davanti; ciò che non sa, è ciò che non ha voluto sapere per tutti quegli anni, e non lo vuole certo conoscere adesso. È l’altro che ne ha bisogno, è il marito Leonard che vuole avere con lei un ultimo legame, che vuole per l’ultima volta vivere. A costo di condannarsi davanti a ciò che è stato lo strumento di una vita: la macchina da presa.

Passato in anteprima a Cannes 77, Oh, Canada è l’ultimo lavoro di Paul Schrader, di nuovo in coppia con Richard Gere, come ai tempi di American Gigolò (1980). Del bel Julian Kay rimane però poco e nulla. Richard Gere/Leonard Fife è avvizzito, una natura prossima alla morte, uomo di cui la vita ha le ore contate e che le ultime ore le vuole scontare al pari di anni di carcere e tortura, alla ricerca della sofferenza, lontano da qualsivoglia sollievo; sulla quale morte, gli studenti – i registi dell’intervista – banchettano a mo’ di avvoltoi, come se avessero imparato dal maestro a ricercare il vero fino al limite e oltre, e ora lo applicassero, restituendogli appieno il favore dell’appreso.

La decadenza dolorosa, pagata a caro prezzo, è il punto forte del film: Gere è efficace nel mostrarcela, nel non risparmiarci nulla, in una delle prove più belle della sua carriera. Diventa egoista e insofferente, repellente alla pietà dovuta ai morenti e desideroso dell’odio concesso invece ai vivi. A fare il paio con lui è la freschezza del Leonard Fife giovane, interpretato da Jacob Elordi, la cui bellezza e naturalezza è illuminante. Anche Thurman è ottima nel ruolo della moglie Emma, capace di essere una donna irrequieta e inquieta, dal passato e futuro difficile. Il problema del film, invece, rimane il narrato.

Il racconto si fa personaggio e il personaggio si fa racconto: il narrato fa contatto con la mente che lo narra e il discorso si fa difficoltoso, difficile. Ne esce un lavoro che vive di buone intensità, tuttavia sconnesse tra loro, e di una coerenza che fatica a ritrovarsi, anzi, si sfilaccia e perde/fa perdere di intensità ripetutamente, soprattutto verso il finale, quando al piano del presente e a quello del passato si aggiunge quello del delirio. Allora, a quel punto, lo zabaione di ricordi, pensieri, afflizione cola lentamente per terra, si disperde, e così l’attenzione dello spettatore impossibilitato ad appassionarsi al racconto.

Dopotutto, la natura del soggetto e la condizione del personaggio potrebbero salvare il narrato della storia, se pellicola e pubblico raggiungessero un pari livello di comunione e intensità, e così andare a braccetto, anzi, accompagnarsi verso un’espiazione comune. Come direbbe Cavalli:

Essere testimoni di se stessi

sempre in propria compagnia

mai lasciati soli in leggerezza

doversi ascoltare sempre

in ogni avvenimento fisico chimico

mentale, è questa la grande prova

l’espiazione, è questo il male.

Ciò non avviene. Non entriamo in sintonia con lui, con Leonard. Assistiamo solo alla sua fine, al suo farsi del male fino all’ultimo respiro. Al massimo, compatiamo. Ma non è quello che lui vuole.

Espiazione e farsi male vanno infatti di pari passo. Le forze di un morente non è detto che siano sufficienti a pesarsi l’anima, neppure in faccia alla moglie. È un discorso da rimandarsi a dopo il rantolo, è un discorso che spetta agli altri, ai sopravvissuti. Loro, solitamente, sono misericordiosi, laddove Leonard non lo è stato: la codardia salva gli inconsapevoli, condanna invece chi codardo sa di esserlo e di essere stato uno dei pochi di una generazione a non farsi ammazzare in Vietnam. Colui che è fuggito, oltre la mano lunga dello zio Tom, oltre il confine. Sì, proprio laggiù.

Oh Canada, Oh Canada.


Oh, Canada – I tradimenti (Oh, Canada)regia e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Andrew Wonder; montaggio: Benjamin Rodriguez Jr.; scenografia: Deborah Jensen; musica: Phosphorescent; interpreti: Richard Gere, Jacob Elordi, Uma Thurman, Victoria Hill, Michael Imperioli, Penelope Mitchell, Kristine Froseth; produzione: Foregone Film PSC; origine: Usa, 2024; durata: 91 minuti ; distribuzione: Be Water e Medusa.

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