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Voto

Nikuko e Kikuko sono madre e figlia – chi delle due sia la madre e chi delle due sia la figlia è facile a dirsi: la prima, un’allegra matriarca di circa trent’anni dall’erculea esuberanza e dal fascino – per così dire – monumentale, sembra rifiutarsi ostinatamente di crescere. Perennemente in viaggio da una città all’altra, la ciclopica e puerile Nikuko somiglia ad un gabbiano intento a svolazzare di sponda in sponda – o di città in città, o di uomo in uomo, o di tempesta in tempesta, ma sempre stridendo con voce sgraziata la propria libertà.
Kikuko è sua figlia, l’ideogramma riverso del suo nome, l’antitesi della sua tesi esistenziale, ovvero: un’undicenne dal fisico esile e dall’animo altrettanto gracile, sottile come una lucertola, fedele come un gatto. Nonostante la proverbiale abitudine a rannicchiarsi dietro le quinte della vita, sarà proprio Kikuko a svelarci la strana storia di questa strana coppia: così, come davanti a un modesto focolare, si schiude il sipario su Gyokō no Nikuko-chan, letteralmente Nikuko della baia dei pescatori (un titolo decisamente più discreto, evocativo e nipponico rispetto all’occidentale La fortuna di Nikuko, che tutto svela senza in realtà svelare nulla). Per la cronaca il film è ispirato all’omonimo romanzo di Kanako Nishi, da cui è stato poi tratto un manga online con i disegni di Sugisaku.

Ayumu Watanabe, diranno i nostalgici, non è altro che un Miyazaki più modesto: errore. Il regista, che ben conosce i suoi polli, gioca d’anticipo, citando apertamente e spudoratamente il Sensei per antonomasia dell’animazione giapponese: la monolitica Nikuko è, difatti, ingombrante, estranea ma amorevole come il nostro vicino Totoro e vivacchia sulla scogliera come Sōsuke, il piccolo grande eroe dell’indimenticabile Ponyo. Eppure siamo fuori strada: sì, perché il cinema di Watanabe s’innesta su binari ancora inesplorati, allontanandosi dall’atlante euroasiatico targato Studio Ghibli. Chi non si ricorda, ad esempio, di Doraemon, il bizzarro micione blu generatosi dalla fantasia di Nobita – nonché di noi ex (ex?) fanciulli perennemente sintonizzati su Italia 1? Spesso il vero significato dei nostri miti adolescenziali viene a galla solo con lo scorrere inesorabile del tempo, ed ecco che il fiabesco Doraemon, in grado di trasportare i suoi cari fra passato, presente e futuro, si trasforma nell’amico immaginario di un bambino intrappolato in un angusto bozzolo, vittima di una sindrome che non gli permette di stabilire un legame concreto con la vita. Proprio il tema dell’incomunicabilità sembra essere il fil rouge che appassiona e tormenta Watanabe, tratteggiando le coordinate del suo microcosmo nello stesso modo in cui la guerra, la natura, la nostalgia della bellezza e il ricordo di un’infanzia universale ormai perduta s’accalcano sulla tavolozza del più noto Miyazaki.

E ora ritorniamo a Nikuko, il Doraemon di Kikuko: sarà infatti questa sorta di gattone impacciato ad accompagnare la giovane protagonista nel travagliato cammino verso l’età adulta, permettendole di emanciparsi con il riserbo e la saggezza che solo un amore sconfinato – o meglio, sovrabbondante – è in grado di donare al prossimo. Così, osserviamo la ragazzina scrivere e riscrivere la sua fragile parabola, delineando in modo più o meno confuso il suo rapporto con il cibo (un’entità fin troppo legata alle nevrosi della madre – Totoro), con i compagni e gli amici di sempre, con il proprio corpo da lucertola che non vorrebbe crescere mai e, infine, con un passato ombratile e minaccioso che la sovrumana stazza di Nikuko non basta ad occultare. Piccolo indizio: il cognome “Misuji”, appeso alla porta della casa-barca in cui le due eterne bambine trascorrono le loro giornate, “è formato da caratteri che fanno pensare alla presenza di tre donne”.
Attraverso l’apparente spensieratezza che contraddistingue la sua penna, Watanabe spalanca un’enorme finestra sul Giappone rurale, dove piove (quasi) sempre e le persone si muovono come figurine disperse in un plastico. Lo sguardo del regista è il medesimo dei suoi protagonisti, spesso disconnessi dal mondo esterno o impossibilitati a parlare con la realtà circostante se non per mezzo di linguacce e smorfie – come Ninomiya, amico di Kikuko e modellista in erba dalla sensibilità straordinaria ma intrappolato, per destino o per ragioni fatalmente ignote, nel labirinto dell’autismo. Non è, come già anticipato, la prima volta che l’autore tratta di simili tematiche – oltre al grande e grosso Doraemon, è bene ricordarsi di Komi can’t communicate, serie TV tratta dall’omonimo manga raffigurante un’umanità in fondo mai del tutto germogliata, ancora ostinatamente intrappolata nel proprio angusto bozzolo. Un po’ come (guarda caso) il piccolo Nobita.
In sala il 16-17-18
Cast & Credits
La fortuna di Nikuko (Gyokō no Nikuko-chan) – Animazione. Regia: Ayumu Watanabe; sceneggiatura: Satomi Ooshima; musica: Takatsugu Muramatsu; voci: Shinobu Otake (Nikuko), Cocomi (Nikuko), Natsuki Hanae (Ninomiya), Ikuji Nakamura (Miu), Riho Yoshioka (Miu), Matsuko Deluxe (Darcia), Izumi Ishii (Maria); produzione: Studio 4°C; origine: Giappone 2021; durata: 120’; distribuzione: Nexo Digital in collaborazione con Dynit.
