Frères (titolo originale del film) vuol dire fratelli. Patrice e Michel sono due fratelli di sette e cinque anni, molto somiglianti, dalla pelle ambrata, riccioli castani chiaro, corpicini magri e scattanti. Sembrano quasi due gemelli se non fosse per la statura, uno dei due è un poco più grande dell’altro. Sono stati lasciati dalla madre in una bella casa in campagna di proprietà di una coppia di mezza età, non è chiaro quanto dovrebbero restare e perché. È il 1948, la guerra è finita da qualche anno, la gente ha voglia di ricominciare a vivere, la madre dei ragazzini ha conosciuto un uomo, lo segue in Argentina, non pensa ai figli, solo a sé stessa.
Per uno spiacevole incidente in seguito al suicidio del padrone di casa, Patrice e Michel prendono la fuga nella foresta: hanno paura di essere incolpati di quella morte. Invece nessuno li segue, nessuno li cerca, nessuno denuncia la loro scomparsa. I due bambini trovano la forza di adattarsi all’ambiente, costruendosi un riparo (un innato istinto di sopravvivenza li guida), imparando a procacciarsi cibo e ristoro sufficienti a vivere nella natura selvaggia per sette anni. Patrice protettivo nei confronti del piccolo Michel, il minore, portato verso l’architettura e l’ingegneria, progetta una capanna confortevole che edificano insieme con un lavoro attento di mesi. Mangiano vermi e bacche fino a che non riescono a pescare a mani nude nel fiume. Patiscono freddo e fame, solitudine e paura sono il pane quotidiano. Giocano nell’acqua, ridono, crescono nell’avventura temprandosi nel carattere come ragazzi selvaggi (è facile rievocare la splendida pellicola di Truffaut, L’enfant sauvage, 1969).
Mescolando piani temporali ora i ragazzi sono degli uomini adulti, hanno più di quarant’anni, Michel è un architetto rinomato, ha una moglie e due figli ventenni. Patrice è sparito, la moglie Sylvie avverte il fratello che molla tutto, compleanno della figlia compreso, e va diretto in un luogo preciso del Canada che evidentemente i due hanno individuato come un luogo perfetto dove rifugiarsi in caso di necessità. Con facilità Michel scova il nascondiglio di Patrice e lo raggiunge in un cottage sperduto tra le vette innevate. I due uomini sono caldi tra di loro, legati da qualcosa che nessun altro può comprendere ed è unico e solo loro. Patrice è chiuso, silenzioso, mantiene un segreto. Michel si adatta subito alle avversità, patisce il gelo senza fiatare, passeggia col fratello in paesaggi di bellezza abbacinante. La sera mangiano poco, fumano, giocano a scacchi. La comunicazione tra i due è automatica, telepatica, perfetta. Il resto rimane fuori, come forse è accaduto da quando sono stati riportati alla civiltà e separati crudelmente affinché diventassero cittadini nella vita reale, quella delle persone che vivono nella società e non in un privato mondo a parte. Nessuno dei due ha mai raccontato quella porzione di vissuto a nessuno: lo choc della violenza umana ha lasciato segni indelebili su ognuno di loro.
Sono stati i migliori anni della nostra vita. Da quando ci è venuta a prendere 40 anni fa e abbiamo lasciato la capanna niente ha più sapore. Il nostro segreto ci distruggerà dirà Patrice a Michel una delle ultime volte in cui parleranno.

Vivere comporta delle scelte, comporta il relazionarsi con altri esseri umani diversi da noi stessi, scendere a compromessi, soddisfare bisogni altrui, lasciare andare, perdere la corazza, conformarsi. La storia di Patrice e Michel racconta quanto sia difficile vivere una vita coerente, superare le paure, fidarsi degli altri. Una vita di sopravvivenza quotidiana, alla ricerca di sostentamento e alloggio, in balia dei fenomeni meteorologici, vissuta da bambini, induce in un individuo diffidenza verso il genere umano, apprensione verso i cambiamenti, difficoltà di adattamento a circostanze strutturate secondo criteri che vanno oltre la resistenza fisica e mentale: Patrice e Michel avanzano nel mondo con un carico insolito nella media degli esseri umani, difficile da cancellare dagli eventi banali dell’esistenza. Crescono diventando eccezioni: pur adattandosi alle regole della società civile, rimangono nel profondo dei disadattati, legati a doppio filo solo l’uno all’altro, percependo esperienze dissimili alla maggior parte della popolazione.
Una storia potente e deflagrante, una storia che appare irreale come quelle raccontate da sbruffoni ubriachi nei bar, difficile da accettare come vera. Recitato per sottrazione, scritto senza pretese giudicanti, diretto in maniera dosata e precisa, il film procede per sbalzi temporali tra passato e presente fino a un finale liberatorio, forse leggermente prevedibile.
L’ultimo cartello recita così: Nel dopoguerra in Francia più di un milione di bambini sono rimasti senza casa. Il problema della riunificazione delle famiglie si è rivelato estremamente complesso. Sebbene raramente la storia renda omaggio i cosiddetti “figli perduti” occupano un posto particolare nell’immaginario di quel periodo. Quindici anni dopo la fine della guerra, secondo le stime dell’amministrazione, più di 340.000 bambini risultavano ancora smarriti in Europa. Questo film è dedicato a loro.
Molto emozionante, dopo la dedica, su sfondo verde di giardino, il primo piano di Michel De Robert – sulla cui storia e del fratello Patrice il film si basa -, settantottenne, capelli bianchi, sguardo puro, che guarda in macchina lo spettatore: sopravvissuto. Un grido muto.
In sala dal 6 marzo 2025.
La storia di Patrice e Michel (Frères) – Regia e sceneggiatura: Olivier Casas; fotografia: Magali Silvestre de Sacy; montaggio: Olivia Chiché; musica: Olivier Casas, Simon Casas, Cyril Maurin; scenografia: Charlotte Martin-Favier; interpreti: Yvan Attal, Mathieu Kassovitz, Chloé Stefani, Alexandre Castonguay, Chloé Rejon, Marc Robert, Anaïs Parello, Jean-Stan Du Pac, Léa Archimbaud, Alixia Torjman, Didier Brice, Simon Casas; produzione: Nicolas Duval Adassovsky, David Giordano per Quad, Traveling Angel Films; origine: Francia, 2024; durata: 105 minuti; distribuzione: Movies Inspired
