Se si vuole comprendere che cosa significa essere bambini sotto il peso specifico dei bombardamenti e la permanente assenza di cibo, una questione aperta in maniera lacerante e in continua presa diretta dalla distruzione a tappeto di case, scuole, ospedali e centri di approvvigionamento in questo momento a Gaza, La tomba delle lucciole, capolavoro del cinema d’animazione realizzato all’interno della fucina creativa dello Studio Ghibli e diretto dal compianto Isao Takahata, ne è una delle più strazianti e sublimi rappresentazioni.

L’ispirazione viene a Takahata, anche sceneggiatore, dal romanzo omonimo di Akiyuki Nosaka, che racconta di come Seita, un fratello poco meno che adolescente, e Setsuko, una sorella ancora molto piccola, tentano di sopravvivere da orfani nella provincia rurale del Giappone devastata dai bombardamenti americani durante la Seconda guerra mondiale, alle soglie della resa incondizionata dell’Impero del Sole. Si tratta di un’ ultima estate di orrore e di meraviglia, di miseria e di incanto, di un rendez vous intenso sul ciglio che divide la sopravvivenza e la morte, la crudezza della realtà e l’abbaglio dell’immaginazione. La vicenda comincia dunque nel giugno 1945 e si conclude tre mesi dopo, il 21 settembre, il giorno della morte di Seita che, come William Holden in Viale del tramonto, ricorda da morto i giorni conclusivi della sua esistenza, ripercorrendo a ritroso, con lo spirito/fantasma della già defunta Setsuko, la tappe di un martirio inflitto dal mondo adulto, al quale poter opporre l’esile traccia di una fantasmatica danza sui ricordi di una felicità perduta. Immune da qualsiasi lirismo e speculazione melodrammatica, la poetica di Takahata possiede l’essenziale del tratto bidimensionale che, nello scavo dei caratteri e nella cura dei dettagli, restituisce un senso tangibile, incarnato, prossimo di quei personaggi esposti alla precarietà e allo smarrimento della terra e del cielo. I fatti che si succedono sono dunque molto netti ed espliciti nella loro ineluttabile crudeltà: le bombe che cadono e bruciano le case e i corpi, tra i quali quello della madre di Seita e Setsuko, la zia acida che rinfaccia loro l’ospitalità e le razioni di cibo sempre più limitate, la scelta orgogliosa e incosciente di vivere da soli, loro due, ragazzini sperduti, in una grotta abbandonata destinata a diventare casa, rifugio, sepolcro.
E intorno a questo nucleo che porta i segni della propria fragilità sulle vesti logore e sui lividi del ragazzo e sugli eritemi sanguinanti e l’espressione catatonica della bambina, la comunità di sopravvissuti , abbrutiti dalla fame e dalla povertà, resta indifferente e ostile; come i contadini raccontati da Ignazio Silone in Fontamara, ridotti a venire, in un’ ipotetica classificazione degli esseri viventi degni di essere considerati, dopo un triplo “niente”, i bambini della guerra, già di quella guerra, sono ancora più invisibili ed esiliati. Questa assenza dell’istanza genitoriale (il padre, arruolato in marina e del quale non si hanno più notizie, è probabilmente morto da tempo) si traduce anche in un campo d’ascolto e di visione, oltre che in una strategia di resistenza. Quando decidono di abbandonare la freddezza scostante e pragmatica della casa della zia, Seita decide di scendere in quella sorta di capanna abbandonata lungo la riva del fiume nel nome di una libertà e di una spensieratezza che, com’è giusto che sia quando si parla di bambini, esclude, ridimensiona, rielabora il pensiero delle cose materiale, anche quando da queste dipende il sostentamento o il deperimento, come nel caso di cibo e acqua. A quel punto possono entrare in campo le lucciole che sono effimere nella loro consistenza e nella durata dalla loro vita, ma possono essere catturare e utilizzate, concretamente, come una fonte di illuminazione. E l’opera di Takahata pone i suoi personaggi proprio nella zona di mezzo tra la realtà addosso dell’istante e l’immaginazione altrove di un fuori tempo, la zona d’interesse in cui si muovono quelle piccole creature non antropomorfizzate, perché la brutalità e la violenza della guerra mortifica, cancella, riduce al grado zero la capacità di sognare e di inventare. E se il fratello maggiore è dinamicamente e brutalmente costretto a muoversi per procurare il sostentamento necessario per cui quel gioco e quella libertà continuino, è Sestuko a tenere invita la dimensione interiore del dolore per la perdita dei genitori e quella onirica dell’incanto per la visione della luce nel fitto buio del bosco o per il gusto di una caramella tra i morsi e le incontinenze della fame più nera. Seita può far (ri)vivere il bambino che ancora risiede in una parte della propria memoria attraverso di lei ed è chiaro che una tale forma di interdipendenza non potrà che spegnere prima l’una e poi l’altro.

Il rigore del film sta però nel non perdere mai di vista la consequenzialità di quella fine annunciata: gli aerei che buttano i missili incendiari (bellissima anche la contrapposizione tra l’immagine violenta dei fuochi che distruggono le case di legno e ardono vive le persone e quella soave delle lucciole che accendono i volti dei bambini nella caverna) sono una presenza inquietante e costante anche quando non ci sono, mentre l’indifferenza e lo sprezzo dei passanti per la stazione ferroviaria della città di Kobe dentro la quale Seita muore, con il suo corpo spostato da uno spazzino come se fosse veramente un blocco di spazzatura, sono un vuoto e una distanza di disumanità incolmabile.
Il pessimo degli artisti e degli intellettuali giapponesi, inevitabilmente ossessionati dal grande occhio dell’esplosione atomica raffigurato con potenza espressionista da Akira Kurosawa in Rapsodia in Agosto, tocca probabilmente qui il suo fondo, ma non si tratta di pietismo o di vittimismo. La forza del monito morale resta nella eco dei giochi e delle risa di Sestuko, che si discosta a un certo punto dal ricordo allucinato del moribondo Seita, e viene preso in carico dallo sguardo di Takahata, che si fa sguardo dell’intera umanità, passata, presente e futura.
E quel fratello e quella sorella sono rimasti a guardarci nel 1945, nel 1988 ( anno nel quale La tomba delle lucciole è uscito al cinema), nel 2025. A restituirci la visione di grattacieli costruiti sulle macerie e i resti delle generazioni più giovani rimaste ad un’infanzia interrotta, puntando un orizzonte, che sia lo skyline di Tokyo, di Berlino o della striscia di Gaza.
In sala dal 18 settembre.
La tomba delle lucciole (Hotaru no haka) – Regia e sceneggiatura: Iasao Takahata dal romanzo omonimo di Akiyuki Nosaka; fotografia: Nobuo Koyama; montaggio: Takeshi Seyama; musiche: Michio Mamiya; produzione: Studio Ghibli; origine: Giappone, 1988; durata: 93 minuti; distribuzione: Lucky Red.
