Innanzitutto, tanti auguri a tutti nostri lettori che, dati alla mano, sono quasi raddoppiati rispetto al 2023 – segno, dunque, che Close-Up riscuote un sempre maggiore successo di audience. Ovviamente vorremmo fare di più e ci proveremo.
Intanto qui la lista dei Top Ten, delle preferenze 2024 tra film/doc/serie, passati in sala o ai grandi Festival – forse qualcuno vedrà indicati dei film che alcuni di noi avevo già menzionato l’anno scorso. Iniziamo con la mia liste quella e di Matteo Galli, in quanto, gerarchicamente, Direttore e Vicedirettore della rivista e poi in ordine alfabetico il resto dei membri della redazione che hanno voluto partecipare a questo scherzoso sondaggio.
Ripetendo il mio invito alla fine del 2023, si tratta, al di là delle scelte e dei gusti singoli, di una occasione, magari seguendo i link alle recensioni fatte, per riflettere a 360 gradi su questo, ormai passato anno di cinema dove abbiamo visto, ci sembra, film e serie di ottima qualità. Ancora buon 2025. (G.Sp).
Giovanni Spagnoletti 1) Emilia Perez (miglior film dell’anno) di Jacques Audiard 2) Dahomey di Mati Diop: miglior doc dell’anno ex equo insieme a No other Land di Basel Adra/Hamdan Ballal/Yuval Abraham/Rachel Szor e Harry Fonda for President di Alexander Horvath – tre diversi universi del cinema di non fiction 3) Parthenope di Paolo Sorrentino: miglior film italiano dell’anno ex equo con Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini E poi non in ordine di merito: 4) Ancora un’estate (L’Été Dernier) di Catherine Breillat 5) Giurato numero 2 (Juror #2) di Clint Eastwood 6) The Brutalist di Brady Corbet 7) La bambina segreta (Ta Farda) di Ali Asgari è un film del 2022 ma in Italia è uscito solo quest’anno 8) Phantosmia di Lav Diaz (a Venezia) 9) Ainda Estou Aqui (in italiano sarà: Io sono ancora qui) di Walter Salles 10) Blitz di Steve McQueen Fuori sacco, infine, due film che mi hanno molto colpito, forse imperfetti ma di grande interesse, che ho visto proprio in questi ultimi giorni di dicembre: Here di Robert Zemeckis (che ha avuto molte critiche e uscirà presto nelle sale italiane) e Grand Tour (che invece ha avuto grandi lodi) di Miguel Gomes. Non ho visto colpevolmente L’innocenza di Kore-Eda Hirokazu


- Anora. Il film diretto da Sean Baker, messosi in luce con due gioiellini indie come Tangerine e Un sogno chiamato Florida, è di quelli che si amano o si odiano, senza mezze misure. I motivi per cui adorarlo sono molteplici, ma ce n’è uno che per me li sbaraglia tutti di gran lunga: Anora mette d’accordo testa, cuore e pancia di uno spettatore che non sia ormai stato reso del tutto ottuso dal rumore di fondo del profluvio di immagini che mitragliano oggi le nostre retine da qualunque schermo/teleschermo/display; facendogli qui compiere un roller-coaster emozionale fatto per lo più di riso amaro e lacrime di gioia. Sean Baker scrive, gira e monta da Dio (qualcuno ha scritto tra Cassavetes e Landis, che però non mi pare facessero proprio TUTTO come lui, che è pure co-produttore!); ma Mickey Madison, la protagonista già in odore di Oscar, è una stella già nata. Infine Igor, personaggio stratosferico e drammaturgicamente risolutivo, interpretato dall’attore russo Jurij Borisov, già visto e applaudito in Scompartimento n. 6. Uno dei personaggi più compiuti e sfaccettati della stagione, quantunque stia quasi sempre zitto.
- La stanza accanto. Il primo lungometraggio diretto in lingua inglese dal maestro del cinema iberico contemporaneo, Pedro Almodovar, ha generato corride dialettiche tra gli addetti ai lavori presenti in Laguna, durante la Mostra di Venezia che gli ha tributato il suo primo Leone d’oro, dopo quello alla carriera vinto cinque anni fa: le disfide estetiche sulla bontà del film hanno toccato punte di rara ferocia, inferiori soltanto all’altro titolo della discordia presente in loco, Joker – Folie À Deux, detestato platealmente dai vedovi dell’originale. Comprensibile: il 23° lungo del regista spagnolo non possiede ormai più nulla dell’anarchismo dissacrante delle pellicole che lo imposero all’attenzione globale nella Spagna post-franchista, tra estetica porno e rabbia punk rock; ma nemmeno della fiammeggiante classicità cinefila di opere più mature come Tutto su mia madre o Parla con lei. Un’operina scarna, apparentemente gracile, che affronta senza alcuna pretesa ideologica (grazie a Dio) il tema dell’eutanasia (ma spiegando chiaramente da che parte stare), affidandosi alla bravura di due campionesse come Tilda Swinton e Julianne Moore chiamate qui a recitare senza alcun orpello istrionico. Il risultato è un film sobrio e austero che pare la negazione dell’estetica almodovariana per come l’abbiamo sin qui conosciuta e definita (ma cosa c’entra? Solo gli imbecilli restano perpetuamente fedeli al cliché di loro stessi), che indaga in punta di piedi temi cruciali come la vita, e suoi derivati. Scusate se è poco.
- L’arte della gioia. Tratto dall’omonimo romanzo di Goliarda Sapienza, pubblicato postumo, la mini-serie targata Sky e diretta benissimo da Valeria Golino riesce a tradurre in
immagini il testo scandaloso del libro, con una verve che ammalia e rapisce, rendendo ormai vetusto – come si diceva sopra – il discrimine rispetto al cinema propriamente detto. Del resto la serie è stata proiettata in anteprima mondiale alla 77esima edizione del Festival di Cannes, prima di conoscere una molto opportuna vita in sala, pervia dell’eccellente lavoro svolto dai reparti di sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi e per la grande bellezza delle location catanesi prestate da una Sicilia Film Commission che da The White Lotus a Màkari fino al Gattopardo targato Netflix è diventata una questione prima economica che poi anche estetica. Intrecciando il tema del women empowerment, imposto con numeri da plebiscito da C’è ancora domani di Paola Cortellesi, con quello della vendetta cruenta come strumento di emancipazione sociale, che è il nerbo di un’altra serie notevolissima come il Ripley di Steven Zaillian; L’arte della gioia diventa un titolo indispensabile per capire cosa ribolle sotto e sopra la superficie del tempo presente, pur narrando il passato. - Qui non è Hollywood. Balzata agli orrori della cronaca per un’inopinata iniziativa legale del sindaco di Avetrana, che ha prima preteso e poi ottenuto la rimozione dal titolo del nome della cittadina balneare salentina, la serie Netflix che narra le vicende dell’omicidio di Sarah Scazzi ha infine ottenuto la facoltà di essere mostrata agli abbonati di quella piattaforma, dopo aver deliziato gli spettatori della Festa del cinema di Roma. Ed è un bene perché il pugliese Pippo Mezzapesa, che si è finora distinto in discrete illustrazioni filmate di storie della sua regione (tra gli altri, Il paese delle spose infelici o il più recente Ti mangio il cuore) è stato bravissimo a restituire le trame thrilling di quella vicenda gialla ancorché “basata su fatti realmente accaduti”; con la perizia sensibile dell’antropologo, che conosce a menadito quelle miserie di provincia, quei tinelli e quei televisori ancora catodici da cui promanano le note illusorie di un vecchio musicarello con Albano e Romina (una scena cult, ripresa con una serie di bellissimi movimenti di macchina, che contiene in nuce tutto il senso della storia).
- Giurato numero 2. Tra 5 anni Clint Eastwood compirà 100 anni. Detto altrimenti a maggio ne farà 95. In un’età in cui i suoi coetanei frequentano nella migliore delle ipotesi i giardinetti pubblici sfogliando distrattamente riviste patinate con occhialoni da miope, lui è ancora lì a sfornare capolavori. E – se si esclude qualche episodica caduta di stile, come American Sniper girato forse per commissione oppure perché momentaneamente obnubilato dalla sua nota simpatia per la causa conservatrice – possiamo ben dire che, come il Dustin Hoffman di Luca Carboni, Clint Eastwood non sbaglia un film. Ciò che stupisce è la sua capacità di compendiare il classicismo dello stile con una freschezza d’ispirazione che non ha nulla di senile. Qui svolge il vecchio canovaccio del “legal-drama” (che meraviglioso filone, così peculiarmente americano: baluginano nella mente di ogni amante di cinema le sequenze di Testimone d’accusa, Vincitori e vinti, e soprattutto di La parola ai giurati, qui citato quasi al limite del plagio) ravvivandolo gagliardissimamente come se fosse la cosa più facile del mondo.
- Il treno dei bambini. Nell’anno in cui tutti hanno incensato Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini (presentato a Venezia), che a me è invece parso appena sufficiente (salvo che nelle magnifiche sequenze su Pinocchio), io ho invece adorato l’ultima fatica dell’altra figlia-regista di Luigi Comencini, Cristina, Il tempo che ci vuole, (presentato alla Festa di Roma): una storia che suo papà – ribattezzato “il regista dei bambini” per la spiccata predilezione per i protagonisti infantili sin dal suo film d’esordio, Proibito rubare, fino al già menzionato Le avventure di Pinocchio – avrebbe amato, narrando di quella vicenda epica e struggente accaduta per davvero nell’Italia lacera e devastata del dopoguerra, quando decine di migliaia di bambini poverissimi di Napoli e di altre città del centro sud furono ospitate, e in certi casi adottate, da alcune famiglie contadine dell’Emilia Romagna. Una storia vera, testimoniata dalle meravigliose fotografie in bianco e nero che scorrono sui titoli di coda, che la regista de La bestia nel cuore trasforma in cinema accorato e sentito, accordandosi a un vecchio slogan ancora attuale, che segna da tempo la sua poetica: “il personale è politico”. Edificato in un impianto estetico convenzionale e apparentemente televisivo, il film di Cristina riscatta tuttavia, dopo pochi minuti, questo potenziale handicap, grazie a una storia di inusitata potenza narrativa raccontata con la più gagliarda delle drammaturgie, affidata non per nulla ai migliori sceneggiatori sul mercato: Furio Andreotti e Giulia Calenda.
- Familia. Diretto dal cosentino Francesco Costabile, è un altro di quei titoli che contribuiscono a battere il suo tempo, narrando di uno snodo a quanto pare ineludibile: il tema della violenza di genere sembra percorrere come un filo rosso le pellicole più diverse (al recente Torino Film Festival pure il biopic sulla cantautrice Rosa Balistreri è diventato un pretesto per parlare di #MeToo e femminicidi). È anche il cuore di Familia, che affronta però l’argomento utilizzando molto efficacemente i codici dei generi cinematografici “dal thriller psicologico, al cinema horror fino al film a tematica sociale”, come spiega il suo regista, che lo considera tuttavia soprattutto “un melodramma nero”. Ci riesce anche grazie al cast, che raduna una serie di interpreti molto ispirati come Barbara Ronchi e Francesco Di Leva, che rendono con la loro recitazione in sottrazione le scene di sopruso domestico più intense di quanto ci si aspetterebbe se fossero rappresentate in modo banalmente brutale. Ma il film di cui ci occupiamo è soprattutto l’occasione per ammirare un giovane attore molto dotato come Francesco Gheghi, che qui vince un meritatissimo Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile.

Call My Agent – Italia 2 - Call My Agent – Italia 2. Comunque la si pensi sul cinema e sulla tivvù italiani, non si può non amare la serie Call My Agent – Italia, giunta alla seconda stagione; per la ferocia spudorata e insieme ironica con la quale ci mostra il controcampo dello star-system di casa nostra. Il motivo? La generosità (per carità, mica disinteressata, ma cosa conta?) con cui i divi del nostro cinema accettano di mettere in piazza vizi, malvezzi, fragilità, difetti, e qualche virtù del proprio carattere; abbattendo spesso la sottile linea che separa veridicità e verosimiglianza, con arditezze drammaturgiche che rinviano persino alle teorie brechtiane (ciò accade soprattutto nel plot affidato al personaggio interpretato da Emanuela Fanelli, in combutta col vecchio sodale, Corrado Guzzanti). Talché se ne deduce che questo show targato Sky, altro non è che l’ennesima propaggine della commedia cinematografica italiana, che da sempre castigat ridendo mores; in quello scarto ambiguo tra riprovazione superciliosa e giocosa autoassoluzione, tra autocritica e celebrazione di sé (come si vede soprattutto nell’episodio interpretato da Gabriele Muccino).
- Ripley. Luci e ombre nell’adattamento di Steven Zaillian (premio Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List – La lista di Schindler) del quasi omonimo romanzo di Patricia Highsmith, già portato sullo schermo, prima da Delitto in pieno sole (1960) di René Clément con Alain Delon e poi dall’iconico Il talento di Mr. Ripley diretto nel 1999 da Anthony Minghella. Da un lato una narrazione prolissa, inutilmente stiracchiata, odiosamente autocompiaciuta anche nel suo ingrediente più prezioso, la fotografia, che è in definitiva troppo soddisfatta di sé, col suo bianco e nero programmatico, stilizzato come un esercizio di stile estenuato e ricattatorio. Infarcita di cliché insopportabili sull’Italia ancora una volta replicata (come sempre, troppo spesso, dagli americani) attraverso registri di messinscena posticciamente oleografici. Dall’altro però va apprezzato il lento e inesorabile andamento ipnotico di una drammaturgia quasi speculare all’identità psicotica del protagonista. La perizia nell’orchestrare la messa in scena dei delitti, che in un crime\noir non è certo un dato accessorio. Lo squallore spoetizzante della violenza rappresentata nella sua prosaicità più disadorna, come a dire della banalità del male; lontanissima per fortuna da certe morti coreografate di casa a Hollywood (giustamente stigmatizzate dal Nanni Moretti de Il sol dell’avvenire).
- EX AEQUO: Vermiglio e The Substance. Fin qui i titoli che mi hanno per diversi motivi scaldato il cuore, però poi ci sono film che per altrettante ragioni non possono essere secondo me esclusi da questa – pur sommaria, inesorabilmente monaca e ovviamente soggettiva – rassegna. Anzitutto Vermiglio di Maura Delpero che ha vinto il Leone d’argento alla Mostra di Venezia ed è poi stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar del 2025 nella sezione del miglior film internazionale. Infine The Substance, body-horror vincitore del Prix du scénario al Festival di Cannes non privo di eccessi smisurati e derive derivative (troppo ovvie le citazioni da Kubrick e Lynch), che è però capace di intercettare un altro topos della contemporaneità: la mostruosità della bellezza a tutti i costi, che alligna beffardamente soprattutto nel cinema Usa di cui questo film è un buon prodotto tipico.


- Anora di Sean Baker
- The Outrun di Nora Fingscheidt
- Challengers di Luca Guadagnino
- Happy Holiday di Scandar Copti
- All We Imagine As Light di Payal Kapadia
- Dahomey di Mati Diop
- No Other Land di Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham, Rachel Szor
- Allegoria cittadina di Alice Rohrwacher
- Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof
- La stanza accanto di Pedro Almodóvar


Mi è sembrato come non mai un anno cinematografico improntato sul tempo…per questo i titoli sono in ordine di come mi sono venuti a mente, a prescindere dal fatto che mi sia piaciuto più uno o l’altro.
- Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan (il tempo della vita e quello del cinema, il tempo delle immagini e quello del racconto, il tempo delle emozioni e quello delle riflessioni …tutto espresso in un forma quantomai cristallina e profonda)
- Here di Robert Zemeckis (Il tempo dell’umanità che non è magniloquente ed epico, ma il posizionamento preciso dello sguardo tra la limitatezza di un campo e la vastità di un fuori campo)
- Megalopolis di Francis Ford Coppola (Il tempo della progettazione come invenzione, sogno, illuminazione strabordante e tracotante, più umana dell’umano: e poi quel finale, l’enormità del cinema raccolta nell’intimità di uno stop frame)
- Giurato numero 2 di Clint Eastwood ( Il tempo dell’etica e della coscienza che richiede un processo più dilatato , contradittorio e lancinante di quello della Giustizia; la sintesi poi è tutta nel tempo di due sguardi in campo e contro campo)
- Invelle di Simone Massi (Il tempo della Storia e il tempo dell’immaginazione che si fondono in un turbinio di linee scomposte e ricomposte: La Memoria come segno vivo e attraversabile)
- Grand Tour di Miguel Gomez ( Il tempo che divide come convenzione subita ma che permette di incontrarsi come esperienza dell’alterità geografica, culturale, immaginifica)
- The Beast di Bertrand Bonello (Il tempo della parola che manipola e urta l’immagine, e il tempo dell’immagine che smaschera la falsità della parola, il suo farsi scenario svuotato di senso, di desiderio, di possibilità: quando si riaprono gli occhi, non resta che tornare all’urlo primigenio, o forse a un’altra maschera)
- Sempre di Luciana Fina (Il tempo come resistenza, utopia, solidarietà: Il tempo del found footage che, parlando del passato, come mai si fa voce e sentimento di un presente che non riesce più a raccontarsi)
- Estranei di Andrew Haigh (Il tempo dell’amore e della comprensione perdute nella materialità pesante e solipsistica di questa terra e recuperate nella pietas bruciante e abissale di una proiezione, di un’allucinazione, di una cometa)
- La stanza accanto di Pedro Almodóvar (Il tempo della morte che nel dare forma e colore ai corpi, agli oggetti, alle parole, all’atmosfera cerca di stanare ogni possibile consolazione dietro la rivelazione di ogni sensoriale (per) turbamento




Parthenope di Paolo Sorrentino. “Antropologia è vedere”, come sentenzia il saggio prof Marotta. E noi in Parthenope vediamo Napoli, che ci arriva come un pugno dritto allo stomaco, nella sua bellezza e nelle sue oscure contraddizioni.
Leggere Lolita a Teheran di Eran Riklis. Il potere salvifico dell’immaginazione e della curiosità intellettuale in un film tutto da vedere.
Maxxxine di Ti West. Un thriller coinvolgente, morboso e spietato.
La gita scolastica di Una Gunjak. La ribellione silenziosa di una ragazza che si oppone alla società ottusa e rigida a cui appartiene. Istruttivo senza essere dogmatico.
Longlegs di Osgood Perkins. Un riuscito thriller psicologico complesso, ansiogeno e disturbante.
Il mistero scorre sul fiume di Shujun Wei. Un thriller sempre più ansiogeno indizio dopo indizio, dove una tranquilla comunità resta inerme davanti alla complessità di un mistero apparentemente irrisolvibile. Inquietante e senza speranza
Appassionato, intenso e avvolgente, Volonté – L’uomo dai mille volti di Francesco Zippel stimola il desiderio di saperne ancora di più e di vedere – o rivedere – tutti i film dell’attore, uno dopo l’altro.
The Substance di Coralie Fargeat mostra una realtà distopica, in cui la bellezza estrema si confonde e si nutre dell’orrore di invecchiare e si ciba come una bestia affamata di una nuova folle etica del vivere.

Fabiana Sargentini
Film
Ainda Estou Aqui (Io sono ancora qui) di Walter Salles: un film animato da una urgenza palese e coinvolgente.
Green Border di Agnieszka Holland: dolorosamente necessario.
Memory di Michel Franco: attenzione maneggiare con cautela.
Fremont di Babak Jalali: bianco e nero con un senso.
Made in England: i film di Powell e Pressburger di David Hinton. Un documentario che attua la riscoperta di due geni.
Le occasioni dell’amore di Stéphane Brizé: un pezzettino di cuore si accende.
Serie
A Body That Works di Shay Capon: senza nessuna retorica, una storia profonda raccontata coraggiosamente, senza sbavature.
The Bear di Christopher Storer: sperimentazione riuscita.
Hacks di Lucia Aniello, Paul W. Downs, Jen Statsky: succoso e divertente, provocatorio senza troppa esibizione.
Feud: Capote vs the Swans di Gus Van Sant, Max Winkler e Jennifer Lynch: intellettualmente stimolante, recitato in maniera divina.


Perfect Days di Wim Wenders: l’uomo che serviva gli altri lavando i bagni pubblici della città. Senza svogliatezza o sufficienza. Con professionalità e attenzione fino all’amorevolezza. L’uomo libero dagli idoli del lavoro e del successo, in armonia, quasi poetica, con ciò che gli era stato donato, nonostante certe antiche ferite di cui intuiamo la portata. Tagli dentro che sicuramente gli hanno lasciato il segno, ma che non lo hanno annientato. Eppure, eppure. Eppure, forse, se non probabilmente, hanno provocato ad Hirayama un callo, uno spazio tra lui e la vita piena. Ha trovato la sua comfort zone personale e sociale, la sua terra di approdo priva di grossi pericoli, con piccole aspettative, piccole ambizioni ed emozioni soddisfatte. Senza rischi veri. Una vita dove tutto c’è, ma tutto è relativo. Compreso l’altro, il prossimo, colui con cui scambiare davvero la vita. Hirayama è inattaccabile: umile, altruista, saggio, forte, ma al tempo stesso è come se adoperasse solo parzialmente il suo talento. Per questo, il suo equilibrio alla fine si fa dinamico con l’alternanza di riso e pianto in volto. Crisi salvifica? Alba di un tempo nuovo? Per tutto questo la sua complessità, dentro un film meraviglioso, è davvero interessante.Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini: omaggio al cinema, omaggio al padre, omaggio alla parte di noi più dolorosa. Omaggio all’amore che tira fuori dalle paludi più pericolose. Omaggio al grande Luigi Comencini, che ne sarebbe stato fiero. Asticella alta e superata con incredibile bravura da Francesca Comencini. Il suo doppio biopic, parziale, è cinema per regia, recitazione e sceneggiatura in forte abbraccio. Tutti insieme appassionatamente, in modo toccante, sorprendentemente toccante. Con tante frasi forti, mai retoriche. Chicca dell’anno. Bello, brava.


