La vita accanto di Marco Tullio Giordana

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Da un film che si apre con una dedica a Chantal Akerman e sull’immagine di una fantasmatica figura femminile ripresa nell’inquieto transitare notturno tra le stanze di una tenebrosa villa, ci si attende forse l’affondo in un conflitto vibrante tra libertà e costrizione, tra la forza irrazionale delle pulsioni e l’ossessione psicotica della forma. La vita accanto, titolo fin troppo programmatico ed esemplificativo dell’ultimo film di Marco Tullio Giordana, peraltro lo stesso del romanzo di Mariapia Veladiano da cui è tratto, sceglie invece la strada più lineare del racconto, pur alla ricerca di momenti sospesi e simbolici in una chiave gotica e fantastica.

Una storia che potenzialmente si prestava bene a queste aperture e digressioni: Maria, una giovane donna sposata con Osvaldo, esponente di una ricca e prestigiosa famiglia dell’alta borghesia vicentina, annuncia una desiderata e attesa gravidanza. L’uomo, più maturo di lei, accoglie con gioia la notizia mentre è assieme alla sorella gemella Erminia, la quale appare subito come una presenza costante e controllante, fin sulla soglia della sala parto. Solo che la cristallina felicità di quel evento verrà letteralmente macchiata dall’apparizione di un’estesa voglia di color purpureo sul volto di Rebecca, la bambina partorita da Maria. Ed è da questo momento che la donna comincerà una progressiva, lenta e ineluttabile rinuncia alla vita,  incapace di accettare il fatto di non aver messo al mondo una creatura perfetta; un condizionamento invalidante fino alla morte e generato probabilmente da un’aspettativa idealizzata sotto la pressione psicologica dello status sociale a cui appartiene. Rebecca però è viva, e riesce ad uscire dall’antro/ventre oscuro verso l’esterno giorno attraverso un movimento che la madre inizialmente vorrebbe impedirle, imponendole il rifiuto in primis delle sue carezze e dei suoi abbracci, e poi del contatto con l’altro e con il fuori che lei stessa si nega, implacabilmente auto ed etero punitiva.

Un tragico incrociarsi, scontrarsi e allontanarsi tra la regressiva psicosi adulta fatta di isolamenti e svuotamenti di senso e l’istintivo attaccamento infantile e poi adolescenziale alla vita non ridotta a un parallelo scorrere affianco, ma aperta ad un attraversamento. In questo senso la macchia rossa di Rebecca è il segno infuocato ed esteriore di un tormento che vorrebbe restare interiore, sepolto, rimosso; uno sguardo smarrito tra la pieghe virulente di un tessuto sociale decadente finanche nella sua melliflua ambiguità, dove si sente la eco a dire il vero molto diluita e piuttosto derivativa, quantomeno nelle intenzioni e dichiaratamente nell’apporto alla sceneggiatura, del cinema di Marco Bellocchio, in particolare quelle opere (con una menzione particolare per Salto nel vuoto) che hanno indagato la stagnante e malsana aria ferma di gruppi di famiglia in un interno notte.

La vita accanto rimane però bloccato in mezzo a un coacervo di premesse, spunti, suggestioni che l’elemento fondamentale deputato a farne un corpo vibrante e toccante, ovvero la regia di Giordana, manca di centrare e di mantenere. C’è a tratti un’atmosfera dolorosa e ostile che rasenta le esistenze dei personaggi ma sembra non avvolgerli e impregnarli mai di un sentimento tangibile, reale, fremente di disagio tale da giustificarne azioni e comportamenti anche radicali e disturbanti. Quanto può essere disturbante infatti il rifiuto così netto e inappellabile di una madre nei confronti di una figlia? È una questione che ha un suo peso specifico, ma l’indagine introspettiva  sulla scelta di Maria resta epidermica, sulla superficie del racconto, e non affonda mai se non il bisturi, visto il tono tendenzialmente più umanista che chirurgico del cineasta milanese, neppure la mano dentro la piaga dolente di un’impossibilità di amare, che passa proprio attraverso l’incapacità di vedere e di vedersi in una prossimità e in una prospettiva.

Non c’era la necessità e non c’è stata-intelligentemente- la volontà di ricercare in qualche frammento in flashback della storia di Maria le ragioni e i sentimenti del suo disgregarsi, il mistero rimane chiuso sul volto bordeggiante asprezze e durezze seppur nella pienezza di un’intensa femminilità di Valentina Bellè, la sua interprete. Ciò che appiattisce e defibrilla la materia ancora incandescente sotto la cenere è più che altro una stanchezza di fondo nel tentativo di esplorare e portare alla sua massima espressione- il che potrebbe essere fatto anche di sottilissima sottrazione, non certo per inerzia o mancanza d’ispirazione-  la doppia condizione, disperata e vitale, di Maria e Rebecca: il salto nel vuoto di una e la presa di coscienza dell’altra che quando sei nata, non puoi più nascondersi, parafrasando il titolo di un film di Giordana e per  rimane nel solco della sua vocazione verso i romanzi di formazione. A rimanere sbiadito e inerme, laddove in quanto controcampo avrebbe richiesto invece una maggiore dirompenza, è il contrappunto al nucleo della relazione madre/figlia, rappresentato dal padre il cui rapporto simbiotico con la gemella, egotica e possessiva pianista di blasonato successo, è uno degli enigmi, per così dire, da decifrare e da risolvere per la stessa Rebecca divenuta adulta, così da poter spezzare la catena di rimozioni e recriminazioni.

E nonostante la presenza di due attori bravi e carismatici come Paolo Pierobon, che dopo il totalizzante e onnivoro padre/papa in Rapito qui si passivizza fino all’evanescenza, e Sonia Bergamasco, che compensa con il fascino altero e perturbante le carenze del personaggio di Erminia, questa trama parallela, questa ulteriore vita accanto, non prende mai forma e sostanza;  manca anche quella scintilla che darebbe senso alla determinante sequenza del prefinale nella quale c’è una rivelazione troppo in assenza di un substrato anche semplicemente narrativo per giustificarne la portata. Tutta la parte più edificante poi, con Rebecca che, nonostante le avversità delle sua condizioni di segnata dalla vita e le molestie dei compagni di scuola , scopre il proprio talento musicale e supera l’esame di pianoforte al conservatorio, ha un’aria talmente para televisiva, rassicurante e consolatoria da stridere con la complessità non riconciliata di alcune ferite mostrate un attimo prima e poi subito dopo. Perché forse risulta un po’ problematico immaginare che una famiglia stratificata su rimozioni, psicosi, manipolazioni possa perdersi nell’abbraccio spezzato di un affetto e ritrovarsi in quello ricongiunto di un’affermazione personale. Una riflessione che comunque Giordana deve aver fatto, visto che Rebecca avrà poi bisogno di riappacificarsi con il fantasma materno  o, per meglio dire, con la versione buona e accudente che di lei ha introiettato o a cui è riuscita a cambiare di segno e di sentimento.
Resta l’impressione di un film opaco, spaventato dagli squilibri e dagli sbandamenti e arenato in un limbo da cui il dinamismo sotto e sopra la pelle e il liminare di linee e direzioni che stanno per esplodere della Ackerman citata in esergo all’inizio sembra lontano anni luce. Ma forse non era quello l’obiettivo, se non l’appellarsi a qualche affinità elettiva possibile sulla carta della pagina scritta, ma piuttosto forzata nella carne delle immagini filmate.

In occasione della presentazione delle prima del film a Locarno, a Marco Tullio Giordana è stato conferito un Pardo speciale in omaggio alla sua carriera
In sala dal 22 agosto 2024


 La vita accanto – Regia: Marco Tullio Giordana; sceneggiatura: Marco Tullio Giordana, Marco Bellocchio, Gloria Malatesta dal romanzo omonimo di Mariapia Veladiano; fotografia: Roberto Forza; montaggio: Francesca Calvelli; musica: Dario Marianelli; interpreti: Sonia Bergamasco, Paolo Pierobon, Valentina Bellé, Beatrice Barison Sara Ciocca, Luigi Diliberti, Michela Cescon; produzione: Kavac, IBC Movie, Rai Cinema con il sostegno di Veneto Film Commission; origine: Italia, 2024; durata: 100 minuti; distribuzione: 01 Distribution.

 

 

 

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