Libri: La vita estranea di Mario Balsamo: proliferazione di linguaggi e scritture, tra cinema e letteratura

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra i mestieri cinematograficamente più rappresentabili quello dell’escapologo, a cui appare riduttiva per sostanza e forma la definizione di prestigiatore, occupa una posizione sicuramente particolare: trattandosi di una figura che si mette continuamente alla prova con il limite-rappresentato da gabbie, vasche, catene da cui evadere – e con la possibilità di superarlo, come in un continuo gioco a rimpiattino tra umanissima fragilità e tracotante onnipotenza, vi è possibile osservare, faccia a faccia con il corpo di chi si mette in scena, lo stupore mirabolante del grande spettacolo e  il terrore profondo, viscerale di un inconscio che ha rilegato il pericolo ad un effetto ottico e a una suggestione.

Il cinema non poteva rimanere indifferente nei confronti di questo potenziale e c’è stato un anno, il 2006 , in cui sono usciti addirittura due film hollywoodiani che hanno avuto al centro della loro narrazione un escapologo -prestigiatore-mago: The Illusionist di Neil Burger, dove Edward Norton utilizzava le sue capacità per far apparire  il corpo della propria amata come una proiezione /ologramma/ fantasma, così da metterla in salvo dalla bramosia di un tirannico principe, e soprattutto The Prestige di Christopher Nolan, un meccanismo di illusioni, manipolazioni, false prospettive e trasmutazioni fisiche e spazio-temporali ben più complesse, che si apre con un’ immagine inequivocabile, quella di una donna legata e chiusa dentro una vasca piena d’acqua che , coadiuvata da tre uomini ( un mago e due “finiti” volontari) , dovrebbe riuscire a liberarsi …..  questo incipit visivo così potente ed evocativo ci introduce direttamente ad un altro tipo di linguaggio, quello letterario , che continua ad avere molto in comune con il cinema, e non solo perché l’autore del romanzo in questione, La vita estranea, è Mario Balsamo, che conosciamo come uno dei più rappresentativi e sperimentali cineasti italiani e  che ha contribuito profondamente, soprattutto negli ultimi dieci anni,  al rinnovamento del concetto di cinema documentario, ponendo la questione fondamentale del rapporto tra messa in scena e realtà, tra  percezione e auto percezione del sé in una continua ridefinizione di confini esistenziali, estetici e narrativi (Sognavo le nuvole colorate, Noi non siamo come James Bond, Mia madre fa l’attrice).

La transizione del suo sguardo nella forma romanzo mantiene infatti la tensione verso un respiro,  una visione e un sentimento cinematografici (e la storia , come ha dichiarato lo stesso autore, è in parte la rielaborazione di una sceneggiatura per un film), a partire da Leo, il  soggetto protagonista, che non fa, quanto ontologicamente è un escapologo, qualcuno che come dicevamo ha bisogno di sfidare in continuazione la prescritta dimensione del corpo  per forzare in qualche maniera la linea Maginot tra la vita e la morte.

Se volessimo continuare ad osservare La vita estranea sotto la lente d’ingrandimento dell’immaginario cinematografico, sarebbe riduttivo limitarsi alle citazioni dei due, emblematici titoli che abbiamo menzionato e che hanno pur un filo diretto con questo romanzo, e con l’apparato di risonanze e rimembranze cinefile che comporta. Non si tratta di un fatto puramente citazionista, in quanto la scrittura di Mario Balsamo in sé, con un lavoro speculare e continuativo rispetto a quello che ha introdotto nel cinema della realtà, possiede una stratificazione e una complessità in grado di generare una nuova forma di racconto. Partiamo dal fatto che esistono almeno tre voci distinte, ognuna connotata differentemente dal punto di vista dello stile , dell’identità , dello spazio e del tempo : c’è il Leo dell’aldiquà, quello terreno di un presente nevrotico, vorticoso, egoico , di un io “qui e ora “ dove sembra non esserci spazio per un passato o  per un futuro , e per quelle che potremmo definire le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni .La sua ossessione per arrivare all’assoluto , allo zenith dell’esercizio escapologico che ne possa sancire l’invulnerabilità/ insuperabilità  (e l’avversaria ricorrente , con la quale intraprendere il corpo a corpo sfiancante, è sempre  la Morte) è un po’ la stessa che, sdoppiata nei personaggi di Hugh Jackman e Christian Bale nel film di Nolan, offre il ritmo serrato, la suspense dove come non mai è richiesta la sospensione dell’incredulità sulla botola non tanto di un patibolo, quanto di una finestra affacciata su una vertigine  ( a attenzione al personaggio hitchcockiano dell’assistente Marco).

Ma poi c’è il contro campo, reso anche graficamente( e talvolta, nella lettura del libro , è possibile imbattersi in due pagine, una di fianco all’altra, la cui differenza di font accresce il piacere dello spaesamento tra le due dimensioni) , del Leo dell’Aldilà , che è consapevole non solo di essere morto, ma in qualche maniera in contatto, come non lo è mai stato neanche da vivo, con la  sua essenza più profonda, fatta di tempo, pulsioni, pensiero. Un Victor Sjostrom de Il posto delle fragole o un Erland Josepheson di Sacrificio, in una chiave sicuramente più minimalista e intima, che però vaga nello spazio mentale e astratto , più laico e filosofico che trascendente e spirituale , di un limbo dov’è concessa, nell’angolo di un buio meditativo e non minaccioso, una scrivania alla quale sedersi e dialogare quietamente con la propria coscienza.

Ma non c’è solo rarefazione e densità, il Leo defunto si permette una ironia e una leggerezza, negata dal diktat del destino tragico e magniloquente sul crinale del quale si crogiola il Leo vivente: se quest’ultimo si identifica con Tolstoj (La morte di Ivan Il’ic) , l’altro appare come un Bergman  rivisitato in parte da Woody Allen, in cui la partita a scacchi con la morte de Il settimo sigillo  non fa più così paura, e può diventare una parata/parodia scanzonata come nel finale di  Amore e guerra, oppure, vista l’importanza del mondo del circo nel racconto  autobiografico post mortem di Leo,  il balletto spettrale e insieme vitale di una memoria in continuum circolare tra vivi e morti,  proiezioni e presenze in carne ossa, in Otto e ½.

Ma la natura poliedrica di quest’opera letteraria, dove trasuda la pratica del montaggio cinematografico , l’assemblamento di linguaggi che trovano una qualche segreta,  misteriosa connessione tra di loro allo stesso modo di una babele di sequenze e di inquadrature (fuor di metafora, rimanendo su Fellini, ci immaginiamo la versione non doppiata de La dolce vita in cui ognuno recitava nella sua lingua madre) , introduce una terza voce,  forse la più vicina per attitudine e storia al mondo di segni e significati di Mario Balsamo: irrompe infatti la realtà nella crudezza e nella pietas della descrizione di un hospice dall’interno , in cui Leo finisce, transitando dalla morte sfidata esternamente a quella scoperta e annidata nel proprio corpo.

E anche qui c’è il  superamento di un ‘orizzonte piattamente descrittivo, da reportage neo-neo realistico o , peggio ancora, da effetto drammaturgico come un cazzotto nello stomaco da parte di una narrazione che fino a quel momento ha sedotto  con l’ affabulazione spettacolare e con la sottile analisi introspettiva. Con l’introduzione del personaggio di Irene ( della quale è opportuno non dire troppo) sposta lo sguardo ancora più al di là di questo contatto essenziale con  il corpo consumato e logorato della morte , privato di qualsiasi appeal o patina seducente ed attraente ( nei modi e nei termini in cui lo intende la società dello spettacolo che anche della morte ha fatto un evento da entertainment); e, proprio come la rosselliniana Irene di Europa ’51 ci accompagna verticalmente sotto la superficie di una realtà che le convenzioni e le norme di un sistema votato alla rimozione e al profitto ci hanno impedito di guardare con lucidità , trasparenza, purezza.

Qui, in ultimo, si torna al cinema di Mario Balsamo, alla visione , questa volta descritta dalla densità delle parole, di quel mare uterino, rigenerante, silenzioso dove lo stesso Mario e Guido si perdevano e si ritrovavano in Noi non siamo come James Bond, e in cui è celebrato anche il primo , onirico e visionario incontro tra Leo e Irene , tra il trauma di un affogamento e la tenerezza di una rinascita. Perché tutti i linguaggi di questo romanzo ci offrono in fondo le parole per dare un nome  a un  luogo che vorremmo raggiungere, che sia casa, anima oppure immaginario.


La vita estranea. Romanzo – Autore: Mario Balsamo; Morellini Editore, 234 pagine; Italia, 2022.

 

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