L’amante dell’astronauta di Marco Berger

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La leggerezza, in particolare quando si racconta una storia d’amore omosessuale, ha sempre la valenza di una piccola gaia rivoluzione nel destrutturare la retorica di un melodrammatico immaginario collettivo, nel rifiutare la riduzione a mera casistica di cronaca o nel sorvolare sugli indistricabili conflitti familiari: Pedro e Maxi, i due luminosi e gioiosi protagonisti de L’amante dell’astronauta, undicesimo lungometraggio dell’argentino Marco Berger (già acutissimo indagatore delle variabili geometriche e direzionali del desiderio queer ad esempio nel delizioso Plan B) sono due ragazzi che giocano in libertà e spontaneità con l’amore, con la sessualità, con le proprie identità. Non ci sono apparentemente traumi, paure o reticenze, ma la spudoratezza e la vitalità di una giovinezza alla soglie di una maturità  (entrambi hanno intorno ai trent’anni) rimandata per poter ballare almeno un’altra stagione.

C’è infatti un’ estate al mare che sarebbe stata cara al cinema di Eric Rohmer, nonostante la prospettiva dialetticamente femminile e le risonanze etiche dei suoi racconti morali (La collezionista) e delle sue commedie e proverbi (Pauline alla spiaggia); il paesaggio marittimo e balneare non è solo sfondo od occasione di circostanza, bensì il tempo/spazio sospeso per poter rimettere in discussione qualsiasi punto di arrivo e di partenza, tant’è che il film si apre su Pedro, seraficamente omosessuale nel suo fanciullesco e a tratti enigmatico faccione sorridente,  per metà spagnolo e per metà argentino, colto nel suo transitare attraverso un aperto che già annuncia gli stupori e i tremori del cambiamento in progress. E l’incontro con Maxi, etero presunto fin dalla presentazione, già disponibile a scherzare sulle pose, le movenze e le apparenze di un altrettanto presunta “essenza” gay , riportando fin dal primo dialogo i pungenti commenti, tra la battuta e l’allusione, della sua ragazza ormai ex, ne è l’attesa e inaspettata epifania. E in questo scambio di sembianze velate e rivelate, Berger crea subito una tangibile tensione tra i due possibili amanti regolari, il segno rosso di una pulsionale e immediata attrazione tra corpi, labbra e sguardi; un’eruzione/erezione sublimata quasi, secondo il controllante e schermato modello mentale del logos maschile, nei duelli verbali, nelle scaramucce battutiste  e nelle incursioni provocatorie.

Le parole, anche quelle cosi care a Rohmer, sono dunque il (pre)testo per procrastinare il momento decisivo della reciproca dichiarazione non più interpuntata da scommesse e triangolazioni;  tralasciando la sublime capacità del maestro nouvellevaguiano di portare la banalità della riflessione quotidiana fino ai più profondi e toccanti spessori della speculazione filosofica, per Berger il dialogo possiede la forza e  l’ immediatezza di restituire il consumarsi sensoriale dell’esperienza. I giri di parole non sono mai a vuoto, ma spirali intorno a un nucleo quasi tattile della fame desiderante, specialmente quella abitata dal più represso Maxi. La necessità vorace di un contatto che si scioglie nel vis a vis post fraintendimento dove, una volta cadute tutte le maschere, seppur carnevalesche e ridanciane, si torna non ad un’essenza o al suo corrispettivo scenico, ovvero un ruolo da ricoprire all’interno del normato schema coppia (da uomo/donna a uomo/uomo): perché si può diventare altro da se e dal resto che ci gira intorno non solo per simulazione o pantomima, ma proprio per davvero. Il passaggio obbligato, il rituale d’iniziazione , è dato comunque dalla distanza dell’ironia e della presa in giro: Pedro e Maxi fingono (anche se già abbiamo capito che in realtà fanno finta di fingere…) di essersi messi insieme agli occhi dei loro compagni di soggiorno estivo, ufficialmente per provocare una reazione nella precedente fidanzata di Maxi.

Un escamotage cosi scoperto che ricorda da vicino quello utilizzato da un altro grande film queer (grande anche per altri motivi) di questo finale di stagione cinematografica: Zendaya che attira sul letto Josh O’Connor e Mike Faist per un menage a trois ,salvo poi sfilarsi e osservarli baciarsi con grande gusto in Challengers di Luca  Guadagnino, è infatti il fuoco centrale di un rapporto che alimenta la competizione sul campo da tennis per il tramite della passione (surrogata) vissuta fuori campo. Ovviamente l’ambiguità dinamica  dei continui capovolgimenti di posizione tra i players di Guadagnino ha poco a che vedere con i più morbidi spostamenti compiuti da Pedro e Maxi l’uno verso l’altro, e la ragazza di Maxi non ha ruolo altrettanto propulsivo nell’accendere e spegnere i fuochi. Anche se è lei, nella pur opaca presenza, ad essere involontariamente per Maxi il collegamento con la messa in crisi delle proprie certezze e per Pedro  l’innescarsi del processo di consapevolezza che lo porta ad innamorarsi di Maxi e a uscire dalla maglie stringenti del sarcasmo e del distacco.

La regia di Berger, nel rifiuto dell’artificio narrativo e delle sue sovrastrutture, sottrae fino all’osso, anzi fino alle ossa dei magnifici corpi dei suoi attori leggiadri e comunque intensissimi, ogni rischio di enfatizzare il mood sentimentale e di iscrivere questa little romance dentro la cornice di una rappresentazione canonizzata, nel filone delle opere LGBTQ+ talvolta strumentalizzate come forma di richiamo dalle piattaforme on demand. Al contrario, la trasparenza e la felice ispirazione del cineasta argentino si traducono nella fluida, delicata, emozionate scoperta di un coming out affacciato sulla passerella della vita, con i sussulti di uno scarto post adolescenziale ancora aggrappati alla dimensione fisiologica del riconoscersi e dell’annusarsi: piena di significato e tenerezza in questo senso è la scena in cui Maxi entra a fare la cacca in bagno mentre Pedro sta facendo la doccia nella vasca, con quest’ultimo che lo invita a restare e gli promette di non guardarlo nel compiersi di quell’atto così intimi e imbarazzante . Una regressione infantile che appare non come evitamento o fuga, ma superamento del pregiudizio inibitorio e della convenzione sociale; l’andare di corpo di Maxi si fa così andare col corpo e nel corpo verso la relazione con Pedro.

E si arriva qui ad un’altra questione da dirimere nel firmamento molto contemporaneo della cinematografica omosex, ovvero la specularità con l’abissale Estranei di Andrew Haigh: un (micro) cosmo che attraversava invece dall’una e dall’altra parte le sponde dell’ineluttabile mélo tra uomini, audio e video trasportato nella materia di cui sono fatti i sogni, con le vedute debordanti e perturbanti che sono le allucinazioni, le proiezioni, le identificazioni. Scevro da un tale, sublime armamentario, Berger opta per l’indicativo presente di un flirt estivo che magari potrebbe trasformarsi in qualcosa di maggiormente  continuativo, oppure giungere a termine  prima dell’arrivo dell’autunno, un bacio appassionato che misura la propria durata; anche se nella fenomenologia di un amore di gioventù quale questo film è non conta tanto la condizione di provenienza o quella di arrivo, quanto l’immanenza di ciò che accade e che potrebbe accadere e che Pedro e Maxi, anche solo evocandolo e facendone in un certo senso una performance, mettono costantemente in atto.

Non un frame cristallizzato dallo stato/ staticità di un ricordo, ma una sequenza di immagini in e-motion che, sotto la semplicità del loro scorrere, caricano l’immensa portata di una congiunzione: Io e te.

In sala dal 20 giugno 2024


L’amante dell’astronauta  (Los amantes astronautas); regia, sceneggiatura e montaggio: Marco Berger; fotografia: Mariano De Rosa ; musiche: Pedro Irusta; interpreti: Ailin Salas, Lautaro Bettoni, Javier Oran, Ivan Masliah, Mora Arenillas, Augustin Frias, Camila del Campo, Melina Furgiuela; produzione: Mr Miyagi Films, Sombracine; origine: Argentina/ Spagna, 2024; durata: 116 minuti; distribuzione: Circuito Cinema.

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