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Voto
3
Insomma un personaggio bigger than life, per descrivere il quale gli autori del film hanno dovuto lavorare in sottrazione, come ha spiegato il regista Paolo Licata (già autore dell’applaudito Picciridda – Con i piedi nella sabbia), per contenere un materiale immaginario così fluviale nelle canoniche durate cinematografiche. Lo hanno fatto partendo dal libro quasi omonimo, scritto dal nipote della protagonista, Luca Torregrossa, e rielaborato dal regista palermitano e da un team di sceneggiatori in cui spicca la brava Heidrun Schleef. Per mettere in scena adeguatamente un personaggio così sfaccettato e pregno di drammatiche contraddizioni, hanno deciso – con un colpo di genio che giova al film, e che ricalca l’idea avuta da Todd Haynes quando nel suo Io non sono qui fece interpretare il mitico Bob Dylan da un gruppo di attori e attrici diversi/e – di farla rappresentare da un pugno di attrici diversissime tra loro le quali interpretano, ciascuna a suo modo, un differente aspetto della Balistreri. Attrici più o meno note, tutte bravissime, che sono il gotha della recitazione siciliana, ovvero: Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario, Martina Ziami; cui si aggiunge in un cameo la “cantantessa” Carmen Consoli, pure autrice della colonna sonora essendo da sempre considerata – e considerandosi ella stessa – una discepola della “cantatrice” nata a Licata.
È interessante sottolineare che, sebbene la Balistreri sia un personaggio tutto inscritto nella temperie sociale, politica e culturale della seconda metà del ‘900, il suo esempio risulta oggi particolarmente attuale – come ci han tenuto a ribadire le attrici durante la presentazione torinese – essendo la sua vicenda umana e artistica segnata anche tragicamente dalla lotta disperata contro una tradizione patriarcale che nella Sicilia dei suoi anni era particolarmente radicata e violenta.
Fin qui le note liete – che, come si vede, non sono poche – accanto alle quali vi sono certi elementi stilistici non del tutto irreprensibili, a mio avviso, a cominciare dal titolo: troppo generico e sin anodino, mi pare, quello scelto, che traduce in italiano il titolo di una canzone di Rosa Balistreri, L’amuri ca v’haiu, che significa piuttosto “l’amore che ho per voi”, concetto dunque diverso e, secondo me, più calzante. Alla stessa stregua ho trovato ridondanti certi “ralenti” coi quali il regista ha scelto di enfatizzare i non sporadici momenti tragici della vicenda, ed eccessivo il modo in cui vengono “mostruosizzati” i maschi della storia, qui quasi invariabilmente mefistofelici.
Difetti, secondo me, piuttosto netti; che non bastano tuttavia a scalfire la forza dirompente di un film dilagante come il personaggio che meritoriamente decide di celebrare. Come ci racconta peraltro la gioiosa conferenza stampa di cui si diceva in principio e la presentazione in anteprima dentro un cinema Romano gremito fino al sold out di pubblico plaudente e commosso.
L’amore che ho – Regia: Paolo Licata; soggetto: liberamente tratto dal libro L’amuri ca v’haiu di Luca Torregrossa; sceneggiatura: Paolo Licata, Maurizio Quagliana, Heidrun Schleef, Antonio Guadalupi; fotografia: Lorenzo Adorisio; montaggio: Pietro Vaglica; musiche: Carmen Consoli; interpreti: Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario, Martina Ziami, Tania Bambaci, Vincenzo Ferrera, Carmen Consoli; produzione: Dea Film, Moonlight Pictures, con il contributo del Ministero della Cultura; origine: Italia, 2024; durata: 125 minuti.
