L’accusa di Yvan Attal

  • Voto
3

Alexandre Farel (Ben Attal) è il figlio perfetto di un mondo perfetto: diligente, studioso, beneducato, il ragazzo vive girovagando fra la prestigiosa università di Stanford e la vecchia Parigi, nella quale risiedono i genitori. Come ogni giovane pupillo dell’alta società, Alex si trascina sul dorso un milieu familiare piuttosto ingombrante: il padre (Pierre Arditi), celebre opinionista radiofonico, sembra occuparsi più della sua immagine pubblica che non del focolare domestico. La madre (Charlotte Gainsbourg) è una femminista part-time nevrotica e intellettualoide. Una simile antifona già ci svela parte del racconto e, nel giro dei primi dieci minuti, siamo in grado di anticipare il futuro percorso della cinepresa. Presentato in Concorso a Venezia 2021, il film di Yvan Attal non fa mistero dei propri trucchi e, in un attimo, snida i tarli che si rintanano nel patinato universo degli ex-coniugi Jean e Claire Farel. Isolamento, frustrazione, crudeltà sono Les choses humaines (così il titolo originale francese) nascoste dietro allo specchio di un’esistenza impeccabile soltanto in superficie.

Tratto dall’omonimo best-seller autografato Karin Tuil, la pellicola scava le logore fondamenta di costellazioni a cui siamo fin troppo abituati. I parassiti dell’ordinario hanno una fisionomia ben precisa e si rapprendono nel moralismo radiofonico di Claire, nel cinismo battagliero di Jean, nella bonaria spocchia di Alexandre. Non occorre certo un grande acume per intuire l’imminente crollo del fragile edificio, ci chiediamo solo che nome avranno i nostri presagi: corruzione? Scandalo? Assassinio? Cosa si cela dietro allo specchio? La parola giunge in sala con agghiacciante freddezza e dice: stupro. Ma la spada di Damocle non pende, come invece potremmo aspettarci, sul capo del potente e untuoso Jean, quanto sulla testa del sensibile e romantico pianista Alex. L’accusa viene da Mila (Suzanne Jouannet), figlia dell’amante di Claire dall’aspetto e dai modi decisamente più ordinari – o, per meglio dire, naif. Il crimine sarebbe stato commesso in un local pubelle nel bel mezzo di un parco notturno, il movente è una squallida scommessa fra amici. La confessione della vittima mette in moto l’orrendo dispositivo giudiziario-legale pronto a fagocitare le sue pedine: la dolce vita è giunta al suo triste epilogo – e come poteva essere altrimenti?

Nel tentativo di ricostruire le due verità, Attal smembra l’arco narrativo in svariati capitoli, finendo per gettare lo spettatore in un pericoloso ottovolante emotivo basato sul principio del relativismo assoluto. Ad alternarsi sul palcoscenico sono i tre grandi protagonisti della vicenda: lo sgomento di lui e il terrore di lei si scontrano sul grande schermo di un affollatissimo tribunale, capitanato da inquirenti le cui priorità trascendono dall’uomo per toccare le più alte cime del cosiddetto caso mediatico. La macchina è in movimento, impossibile fermarla, impossibile arrestarne i singulti: lo stupro viene ripetuto ancora e ancora e ancora, il delitto abbisogna delle sue repliche, ovunque ci si pasce di un’onniscienza a cui nessuno avrà accesso. La reiterazione fine a sé stessa confonde le idee, rimescola le versioni, parafrasa ciò che non avrebbe bisogno di alcuna glossa e porge il braccio ai carnefici.

Nel disperato tentativo di porre argine al fariseismo, il regista ne sconsacra il tempio – in tal caso, il palais de justice di Créteil, luogo dell’ipotesi per eccellenza nel quale i personaggi vengono rinchiusi durante la seconda parte del lungometraggio. Il fatto che la pellicola s’inscriva in un fastidioso condizionale non significa, infatti, ch’essa non sia in grado di formulare un verdetto o di rigirare le carte finora coperte. L’obiettivo intende semplicemente mostrarci le crepe presenti a corte, spingendoci verso una diffidenza che, purtroppo, tende a rivelarsi unilaterale. L’arringa elaborata dall’accusa non giustifica il reato, ma ci dimostra la facilità con cui tendiamo a scagionare una forma mentis ereditata quasi geneticamente. Se, da un lato, abbiamo la sgradevole impressione che la sceneggiatura prenda le parti di Alex, dall’altro lato dobbiamo fare i conti con un’empatia collettiva che spesso e volentieri sbaglia destinatario.

Il linguaggio magniloquente degli addetti ai lavori (avvocati, magistrati, consulenti e chi più ne ha più ne metta) ha un retrogusto asprigno, l’enfasi artificiosa con cui i rispettivi difensori formulano dogmi e assiomi ci lascia in bocca un sapore acre, come se le pietanze servite in tavola fossero andate a male. Ed è esattamente questo il punto: qualcosa, nel simposio etico contemporaneo, risulta ormai immangiabile. L’ultima sequenza ne è la prova – basterebbe soffermarsi sugli occhi di lei e sulla frettolosa apatia di lui. Ma noi continuiamo a ingozzarci, rendendo onore al ributtante banchetto.

In sala dal 24 febbraio


Cast & Credits

L’accusa (Les choses humaines)  – Regia: Yvan Attal; sceneggiatura: Yaël Langmann, Yvan Attal; fotografia: Rémy Chevrin; montaggio: Albertine Lastera; interpreti: Ben Attal (Alexandre), Charlotte Gainsbourg (Claire), Mathieu Kassovitz (Jean), Suzanne Jouannet (Mila), Pierre Arditi (Jean), Laëtitia Eïdo (Yasmina Vasseur); produzione: Curiosa Films (Olivier Delbosc), Films Sous Influence (Yvan Attal), Gaumont (Sidonie Dumas), France 2 Cinema; origine: Francia 2021; durata: 138’; distribuzione: Movies Inspired

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *