Lightyear – la vera storia di Buzz di Angus MacLane

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Come se fossimo catapultati immediatamente in un corto circuito temporale o, più pertinentemente rispetto al soggetto, assorbiti da un buco nero aperto nello spazio di un immaginario della memoria, Lightyear la vera storia di Buzz si apre con un cartello che ci informa che questo è il film che Andy , il piccolo protagonista di Toy Story  (capostipite e capolavoro Pixar dell’animazione in 3D realizzato dal genio innovatore di John Lasseter) era andato a vedere al cinema rimanendo talmente conquistato dal suo protagonista, lo space ranger Buzz Lightyear, da acquistarne la versione giocattolo (che diventerà poi uno dei personaggi principali – con ben tre sequel – della saga iniziata nel 1995).

Un tale preludio da sospensione del principio di incredulità presuppone che stiamo per vedere un film di quasi trent’anni fa, magari con lo stessa disponibilità a farsi sorprendere di quando scoprimmo che anche nei cartoni animati poteva esistere la tridimensionalità , la profondità di campo, la plasticità degli oggetti, dei corpi e dei paesaggi; e non solo in quanto proiettate in forme asettiche e geometriche all’interno dello schermo di un computer o di un videogame da giocare nel loop della solitudine casalinga, ma perché animate (letteralmente) dall’afflato caldo, divertente ed emozionante di una nuovo frontiera dell’immaginazione da abitare nel rito collettivo della sala cinematografica (almeno all’epoca) e convertita, poi , dagli studios hollywoodiani in una serie di franchising longevi e milionari , sacrificando spesso qualcosa all’ispirazione e alla sperimentazione.

La prima criticità di Lightyear, diretto dal veterano “pixariano”  Angus MacLane già autore di uno spin off ( sua la co-regia con Andrew Stanton del non memorabile Alla ricerca di Dory che erigeva a protagonista assoluta la pesciolina smemorata vista in Alla ricerca di Nemo) e supervisionato da due fuoriclasse dell’ingegno e della creatività come Pete Docter (Monsters & Co. e Up) e il già citato Stanton (WallE), sta invece nel fatto che ci accorgiamo da subito che sono passati molti anni e cambiate molte cose, a cominciare dalla maggiore raffinatezza, acquisita in decenni, dell’apparato tecnico-visivo e, soprattutto,  dalla fusione tra la Pixar e la Walt Disney. La creazione di questo moloch dell’animazione anglofona ha lasciato le proprie impronte non solo nel moltiplicare una potenza produttiva ed economica, ma anche sui codici linguistici e narrativi, edulcorando lo spirito un po’ più anarchico e poetico della Pixar delle origini, con l’impostazione didattica, edificante e mainstream dell’ultima generazione disneyana.

La storia di Buzz, il ranger dello spazio che deve ricondurre sulla terra il suo equipaggio rimasto bloccato, per un accidentale errore commesso proprio da lui, su un pianeta alieno ostile, è dunque puntellata di segni e di temi mirati ad offrire una certa rappresentazione dei valori su cui si fonda un’idea di collettività e di individuo: abolita la retorica dell’eroe tutto d’un pezzo che non sbaglia mai, analizzato e criticato un certo delirio di onnipotenza e di individualismo del maschio bianco occidentale ( Buzz è convinto di poter porre rimedio con le sue sole forze a qualsiasi paradosso del destino e dell’universo), si promuove il gioco di squadra prima nella partnership complementare con il suo comandante Alisha Hawtorne,  saggia comandante che fa anche le veci di amica- mentore-coscienza post mortem (al centro oltretutto di una delicata storia d’amore interraziale e omosessuale, forse troppo anticipatrice nell’ottica di un film del 1995…) e, successivamente, nell’incontro con un plotone di improbabili ma volenterose aspiranti reclute, e si esalta il valore della dimensione quotidiana e ordinaria del vivere rispetto alla ricerca spasmodica dell’impresa epica, il flusso costante del coraggio di ogni giorno contro l’eccitazione temporanea di essere artefice adi un evento unico e irripetibile, seppur riproducibile nella sua fallibilità.

Di fatto Buzz ha solo apparentemente la tenuta granitica dell’eroe classico , con i conflitti e le contraddizioni che un simile status comporta, ma viene presentato come un esempio di rettitudine e consapevolezza. Nella prima parte, quando è alla ricerca della propulsione giusta per poter accedere  all’ipervelocità e riportare a casa l’astronave con i suoi compagni , l’ossessione indomita e insubordinata, impiantata in egual misura dall’Ego e dal senso di colpa, per portate a termine la mission impossible lo rende una figura quasi patetica nel suo essere fuori tempo massimo da un eroismo da cavaliere della valle solitaria. E il film ha un suo respiro estetico suggestivo nell’evocare scenari di una fantascienza adulta , in primis Alien, con quel pianeta silenzioso e in agguato da cui spuntano affamati tentacoli che sembrano radici di alberi posseduti da una qualche entità maligna, o tutti i momenti di sospensione e di vuoto nello spazio, con una cura per le prospettive e le angolazioni delle inquadrature che fanno venire in mente il kubrickiano 2001 (il punto di partenza e di arrivo per ogni immaginario fantascientifico); restando nel solco di un riferimento più contemporaneo, c’è la vertigine dell’asimmetria temporale attraverso la quale Buzz viaggia e rimane costantemente e immutabilmente giovane mentre chi gli gira intorno si riproduce, invecchia e muore, come succedeva a Matthew McConaughey astronauta precipitato nel turbinio di accelerazioni del passato e ritorni al futuro in Interstellar di Christopher Nolan.

Torna poi l’ormai sfruttatissima, particolarmente in questa stagione cinematografica, apertura sugli universi paralleli generati dallo spostamento direzionale del tempo, con Buzz che incontra una versione malvagia e  anziana di se stesso dove a prevalere è stato il delirio controllante del megalomane e non il lucido e ponderato sentimentalismo di chi non vuole cancellare il proprio vibrante vissuto nel nome di un piatto orizzonte di gloria senza ricordi e desideri. Un citazionismo cinefilo, sostenuto dal piacere di individuare eventuali altri riferimenti visivi e immaginifici, che è più godibile e avvincente dell’immancabile lezione di vita raccontata dalla trasformazione dell’egotico Lightyear in un vero leader di gruppo,  capace di fare squadra (intesa anche come famiglia allargata di affetti) con gli aspiranti , sgangherati ed umanissimi space rangers, tra i quali spicca Izzy, la nipote entusiasta e imbranata dell’adorata e compianta Alisha in una specularità didascalica tra passato e presente privata dell’ambiguità spiazzante del doppio. E perfino l’irresistibile e immancabile spalla comico-tenera di matrice animalesca, il gatto robot dall’inconfondibile aspetto iconico (sembra la progenie addomesticata e futuristica del gatto con gli stivali di Shrek), alla lunga risulta prevedibile nel comunque perfetto alternarsi dei tempi comici e di quelli avventurosi.

Forse, viste le potenzialità mostrate dal Buzz versione pupazzo all’interno della serie Toy story,  avremmo voluto sentirci più spiazzati e sradicati dalla sicurezza terrena  della forza di gravità, cosa che sarebbe stata possibile se il motto, lo slogan, la frase rappresentativa del nostro eroe, verso l’infinito e oltre, non fosse stata frenata da un tiepido e rassicurante paternalismo  da “fai la cosa giusta”. Per un Lightyear “fool e hungry”, come avrebbe detto Steve Jobs, aspettiamo la prossima fermata del multiverso della follia.


Lightyear – la vera storia di Buzz (Lightyear) Regia: Angus MacLane; sceneggiatura: Jason Headley, Angus MacLane; fotografia: Jeremy Lasky, Ian Meggiben; montaggio: Anthony J.Greenberg; musica: Michael Giacchino; voci originali: Chris Evans (Buzz Lightyear), Peter Sohn(Sox), James Brolin (Imperatore Zurg), Keke Palmer (Izzy), Uzu Aduba (Alisha Hawthorne);   produzione: Galyn Susman per Pixar Animation Studios e Walt Disney Pictures; origine: USA , 2022; durata:  105′; distribuzione: The Walt Disney Company Italia.

 

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