Lightyear – la vera storia di Buzz di Angus McLane

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“Nel 1995, un ragazzino di nome Andy ricevette per il suo compleanno un pupazzo di Buzz Lightyear. Era il protagonista del suo film preferito. Ciò che state per vedere è quel film.”

Anno 3901. Un’astronave si schianta su un pianeta ostile. Lo Space Ranger Buzz Lightyear (qui doppiato in originale da Captain America – scusate, Chris Evans) e il suo ufficiale di comando Alisha Hawthorne (Uzo Aduba) scendono dal veicolo chiacchierando amabilmente come se stessero passeggiando per la Quinta Avenue di una vecchia città chiamata New York. Chiaramente il suolo è inospitale: in men che non si dica, l’intero equipaggio si ritrova a combattere contro enormi radici-tentacolo che cercano di stritolare gli sventurati esploratori. Ma Buzz e Alisha sono due Eroi con la E maiuscola, e a suon di pistolettate balzano sul loro razzo supersonico, inscenando una fuga rocambolesca verso galassie più amiche. O forse no?

Così dunque, fra raggi laser e imprevedibili gag, si apre Lightyear – la vera storia di Buzz, o meglio la vera storia di Buzz secondo lo sceneggiatore e regista Angus McLane, che con la Disney Pixar condivide una lunga relazione amorosa nata già ai tempi dell’iconico Bugs Life (1998). Il giocattolo più popolare della storia del cinema, incontrato per la prima volta ai tempi di Toy Story (1995) e plasmato sul modello del celebre pilota Buzz Aldrin, ritorna qui umano come Pinocchio al termine delle sue avventure. L’intero lungometraggio ruota attorno a tale metamorfosi: cosa succederebbe se le marionette si scoprissero – come dire – bambini veri? Un quesito interessante, destinato tuttavia a sovrastare il povero Buzz, trascinandolo in una dimensione parallela che non gli appartiene – o meglio, che non dovrebbe appartenergli. A nostro avviso, il più grande difetto dell’opera risiede proprio nella trasfigurazione del burattino in… beh, in burattino in carne ed ossa. Forse sarebbe stato meglio lasciare la fata turchina in pensione, questo mondo non è più un mondo per lei. Ma cerchiamo di capirne il motivo.

Lightyear è un racconto di fallimenti: fallisce la ritirata dall’asteroide mangiauomini, fallisce la missione dei sopracitati paladini, fallisce il loro stanco tentativo di fondare una colonia su una terra che si ostina a rimanere nemica. Buzz prova ad evacuare l’equipaggio utilizzando il “cristallo dell’iperspazio”, una sorta di pietra filosofale capace di alterare il flusso del tempo – e dunque di consentire i viaggi interstellari. Test dopo test, Buzz fallisce: per lui passano quattro minuti, per i suoi compagni quattro anni. Armato di un’ostinazione puerile e quasi indisponente, l’astronauta trascorre le giornate saltellando fra le stelle in compagnia di un adorabile gatto-robot dall’intelligenza (è il caso di dire) felina. I fallimenti si accumulano. Gli anni passano – non per l’irremovibile protagonista, bensì per i suoi cari. Alisha si sposa, fonda un’intera progenie di figli e nipoti. L’esistenza, sebbene in forma precaria, va avanti con una certa nonchalance. E, nel frattempo, Buzz continua imperterrito a fallire.

Alla (più o meno) milletrentaquattresima sconfitta succede qualcosa di inaspettato: Buzz, l’eroe tutto d’un pezzo che non si arrende mai, il vincente ad ogni costo, il figliol prodigo di una civiltà che aborrisce l’errore (e, di conseguenza, la propria componente più umana)… riesce finalmente a portare a termine la sua missione impossibile. Ma solo per fallire ancora, e per fallire meglio! Tornato a terra dopo dodici anni nello spazio aperto (che per lui sono stati pochi secondi), Buzz scopre il focolare domestico minacciato da terribili automi. Alisha, ormai anziana, ha preso congedo dalla vita. A seguire le sue orme c’è la nipote Izzy (Keke Palmer), un’adulta non troppo adulta dall’indole goffa, ma piena di buona volontà e dotata di un’intelligenza bizzarra. Di Space Marines non c’è traccia, a sostituirli è uno scalcagnato duo composto da Darby Steel (Dale Soules), un’ex detenuta in libertà vigilata, e Mo Morrison (il Taika Waititi di Jojo Rabbit), un adorabile idiota dalle trovate geniali. Da qui in avanti la narrazione soddisfa ogni nostra aspettativa, seguendo la logica di Encanto: saranno infatti Izzy e il suo team di super-mediocri a interrompere il circolo vizioso in cui Buzz, prigioniero della retorica del campione, si rinchiuse ormai quasi un secolo prima. E così veniamo anche a scoprire chi si cela dietro i Transformer che, in un’epoca ormai lontana, invasero la colonia – non intendiamo spoilerare l’epilogo, ma probabilmente l’avete già intuito.

L’idea di McLane è interessante e segue la pista già spianata dalla Mirabel di Byron Howard e Jared Bush. Le pellicole targate Pixar sono lo specchio, per dirlo alla Lightyear, dello spaziotempo in cui siamo naufragati: nel sarcastico entusiasmo che le contraddistingue, esse trasportano sul grande schermo le luci e le ombre di un presente storico ancora dominato dagli ingombranti mostri (o, in questo caso, automi) del successo, dell’autoaffermazione funzionale soltanto a sé stessa, dell’ambizione malsana, dell’eccellenza raggiungibile unicamente attraverso l’annientamento dei nostri lati migliori. Il regista schernisce il mito dell’eroe, e lo fa concatenando la trama in un lungo effetto domino di colossali fiaschi che i personaggi esperiscono con solidale ironia, ostentando l’umorismo crepitante e fatalista tipico del Marvel Cinematic Universe.

Il risultato, tuttavia, è decisamente meno riuscito di Encanto – gli autori pretendono di rendere umano ciò che, in fondo, già lo era. L’enfasi con cui McLane condanna la morale odierna ci risulta fastidiosa, perché pretende di rimuovere la retorica del vincente utilizzando (guarda un po’) la retorica del vincente: il principio secondo il quale a renderci perfetti sono le nostre imperfezioni ha sempre un retrogusto acre – specialmente se, ad essere messo in dubbio, è il concetto stesso di perfezione. McLane compie un volo vertiginoso verso l’infinito e oltre, salvo poi schiantarsi sull’imponente robot dell’aspettativa sociale ch’egli, invece, vorrebbe distruggere. Un vero peccato ma, come ci insegna il nostro Buzz: ritenta e, se sarai meno irreprensibile, sarai anche più fortunato.

In sala dal 15 giugno 


Cast & Credits

Lightyear – La vera storia di Buzz – Regia: Angus MacLane; sceneggiatura: Jason Headley, Angus MacLane; fotografia: Jeremy Lasky, Ian Megibben; montaggio: Anthony J. Greenberg; voci: Chris Evans (Buzz Lightyear), Peter Sohn (Sox), James Brolin (Zurg / Buzz anziano), Uzo Aduba (Alisha Hawthorne), Keke Palmer (Izzy Hawthorne), Isiah Whitlock Jr. (Comandante Burnside), Efren Ramirez (Aviatore Diaz), Taika Waititi (Mo Morrison), Dale Soules (Darby Steel), Bill Hader (Featheringhamstan), Keira Hairston (Izzy bambina), Mary McDonald-Lewis (I.V.A.N.), Angus MacLane (Eric, Deric & Zyclops); produzione: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures; origine: USA 2022; durata: 105’; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures.

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