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«Se poi qualcuno mi vuole uccidere, lo faccia. Io non scappo». Lo dice Liliana Segre nell’ultima scena del documentario a lei dedicato da Ruggero Gabbai. Liliana uscirà per tre giorni, come evento speciale distribuito da Lucky Red, e sarà riproposto il 27 per il Giorno della Memoria. Plausibile era il rischio del ritratto agiografico, ma il regista e fotografo milanese dribbla le insidie e confeziona un film di 80 minuti che, per ovvie ragioni, è qualcosa di più di una biografia.
Benché nominata senatrice a vita dal presidente Mattarella, la 94enne ebrea milanese che tornò viva dal lager di Auschwitz, dove era finita a tredici anni nel febbraio 1944 insieme al padre quasi subito ucciso dai nazisti, continua ad essere una testimone scomoda, anche parecchio odiata. Minacce di morte, insulti sui social, un murale deturpato, non bastasse lo scorso novembre un cinema milanese, temendo atti di vandalismo da parte della galassia “propal”, preferì non ospitare un’anteprima del documentario. Mi augura che nulla del genere accada adesso che il film esce in tutta Italia, ma potrebbe sempre succedere: fascisti, razzisti e filopalestinesi poco la amano.
Segre porta ancora sull’avambraccio sinistro il triste numero che le fu tatuato dai nazisti: 75190. Di colpo, in quel 1944, non fu più la bambina milanese, orfana di madre, cresciuta nella bella casa di corso Magenta 55 e già espulsa dalle scuole elementari a causa della fetide “leggi razziali”, in realtà razziste, del 1938; bensì, appunto, solo un numero di riconoscimento, da imparare a memoria in tedesco.

Il film alterna spezzoni di due ampie interviste: l’una realizzata nel 1995 a Milano e l’altra nel 2024 a Pesaro. A tratti sembrano parlare, non solo per i segni dell’età, due donne diverse, come se oggi lei custodisse una serena consapevolezza di sé, anche una più quieta capacità di raccontarsi, con piglio affettuoso ma implacabile nei dettagli. Pure quando c’è da inoltrarsi in quel famigerato e segreto binario 21, nei sotterranei della Stazione Centrale di Milano, dal quale il 30 gennaio 1944 partì il treno merci che la deportò ad Auschwitz con altre 604 persone.
Liliana non raccoglie solo la doppia testimonianza della senatrice: parlano i tre figli, alcuni nipoti, una serie di ospiti, tra i quali Ferruccio de Bortoli, Fabio Fazio, Mario Monti, Enrico Mentana e Geppi Cucciari. Ma è soprattutto lei a prendersi la scena, col suo eloquio diretto e lampeggiante, rivelando la depressione da cui fu mangiata in anni non troppo lontani, l’indisponibilità a tornare in quei luoghi di sofferenza, fame e morte, il timore del Grande Nulla teorizzato dal nonno agnostico Giuseppe; anche il riaccendersi alla vita quando, durante una vacanza a Pesaro, conobbe il futuro marito, l’uomo che più tardi avrebbe guardato con simpatia all’associazione “Costituente di destra” lanciata dall’ex repubblichino Giorgio Almirante, quasi provocando la separazione tra i due (Segre spiega tutto con cura).
Scortata dai carabinieri, a causa delle minacce ricevute, Segre rivela che l’odio non l’ha divorata, nemmeno quando avrebbe potuto sparare con una Luger vista per terra a uno dei suoi carnefici lesto a disfarsi della divisa nazista per sfuggire agli Alleati; ma accusa «la grande indifferenza degli italiani», di allora e forse di oggi, scandendo amaramente che «gli ebrei non interessano a nessuno: tra una quarantina d’anni la Shoah sarà solo una riga su un manuale di storia». Mi auguro proprio che non sia così.
In sala il 20-21-22 e il 27 gennaio 2025
Liliana – Regia e sceneggiatura: Ruggero Gabbai; Roberto Proia; fotografia: Pierluigi Laffi; montaggio: Cristian Dondi, Chiara Passoni; interpreti: Liliana Segre, Alberto Belli Paci, Luciano Belli Paci, Federica Belli Paci, Davide Belli Paci, Edoardo Belli Paci, Filippo Lo Jacono, Geppi Cucciari, Daniela Dana, Ferruccio De Bortoli, Fabio Fazio, Claudia Marsella, Enrico Mentana, Mario Monti, Milena Santerini, Franco Vaccari; produzione: Forma International, Rai Cinema; origine: Italia, 2024; durata: 84 minuti; distribuzione: Lucky Red.
