L’inaffidabilità delle immagini: Civil War di Alex Garland


Quarto lungometraggio (e mezzo) per Alex Garland regista, a nove anni dal pregevole Ex-Machina, film che si apriva a interrogativi non banali su questioni metafisiche ma anche di strettissima attualità, oggi più di ieri: cosa ci definisce come essere umani e quali sono, se esistono, i limiti che dobbiamo porci nella corsa allo sviluppo delle I.A.?

In Civil War la posta in gioco pare non meno alta e sull’intera vicenda aleggiano interrogativi umanissimi, come i rovelli interiori che consumano l’anima della protagonista, la fotografa di guerra Lee Smith interpretata da una intensa Kirsten Dunst.

Ci si interroga, non certo per la prima volta, è ovvio, sul ruolo dell’informazione, sulle regole che deve darsi nel raccontare la guerra e la sofferenza, ma anche nelle barriere che essa deve frapporre tra sè e il racconto della politica per non diventare anch’essa un ingranaggio nel meccanismo subdolo della propaganda. Ma un’altra, non meno importante, partita si gioca nel campo dell’immagine e dello sguardo, del loro rapporto con il reale, con chi le percepisce e con chi le produce – perché, senza entrambi questi soggetti esse non esisterebbero, sorta di fotografia senza punti di vista – del loro potenziale mesmerico, degli effetti che esse producono su chi le consuma, in primis l’assuefazione.

E lo fa raccontando l’intera vicenda attraverso le vite di due rappresentanti di due medium che appaiono oggi in crisi: la fotografia e la ‘galassia Gutenberg’.

Cailee Spaeny

Apparente contraddizione, come quella che vede un regista inglese raccontarci con sorprendente lucidità quanto accade in un’America che da tempo si prepara alla resa dei conti finale tra due aspiranti presidenti ottuagenari, le immagini dell’assalto a Capitol Hill ancora impresse nei nostri occhi. Entrambi irrimediabilmente legati al secolo scorso, così come i due media sopra citati. Con i Social media (non a caso assenti) a fare da convitato di pietra.

In epoca di post verità, infatti, quel che conta è l’effetto e non la causa. Cosa abbia condotto gli Stati Uniti D’America alla guerra civile cinematografica o quanto siano fondate le accuse di brogli elettorali che hanno dato il via alle devastazioni trumpiane del 2021, non ha importanza: sono entrambi espedienti narrativi, MacGuffin utili a fare da innesco. Il medium è il messaggio, sempre.

“Mio padre è da qualche parte in campagna a fare finta che tutto questo non stia accadendo” confida la giovane Jessie (Cailee Spaeny) alla disillusa mentore Lee. Non lo facciamo anche noi, far finta di niente, per sopravvivere al flusso ininterrotto di immagini che ci piovono addosso?

Entrambe, in gradi diversi, le uniche ancora non completamente assuefatte alle brutture del reale: l’allieva che maneggia una Nikon analogica, la maestra, dallo sguardo apparentemente più indurito, una Leica digitale.

Come a dire, che più il medium si raffredda meno è capace di penetrarla quella realtà. Non è un caso, dunque, che le foto che racconteranno l’epilogo di questa vicenda – perdendo, tuttavia, inevitabilmente informazioni – provengano dalla Nikon analogica. Lo sguardo della televisione è invece rivolto altrove, ingannata da semplici sotterfugi messi in atto per salvare la vita del Presidente. Con i social media, come detto, volutamente non pervenuti.

Nel seguire le travagliate vicende umane delle due fotografe, riviviamo l’epopea dei grandi reporter di guerra: Robert Capa e Margaret Bourke White su tutti, sino alle cronache, certamente più recenti, dei colpi di mortaio che illuminano le notti irachene durante la prima guerra del golfo. E se l’intera vicenda è giocata sul vedere e sui suoi punti di vista, sulla capacità assegnata allo sguardo umano di cogliere particolari nascosti che sfuggono al mezzo tecnico, il finale poggia invece sull’eredità di quello stesso sguardo, allorquando Jessie pare aver smarrito la fanciullesca ingenuità che caratterizzava il proprio, per far suo quello della collega e mentore. E non sarebbe potuto essere altrimenti, poiché nella parabola disegnata per il personaggio interpretato da Kirsten Dunst, man mano le barriere, i diaframmi, che la separano da quello che per una vita ha fotografato, crollano inesorabilmente fino alla crisi e alla presa di coscienza finale.

Lo statuto delle immagini, pare dirci Garland, è dunque quello dell’inaffidabilità. Esse, infatti, sono in grado di restituirci scene apocalittiche, come nel caso della foresta in fiamme, con le sembianze di uno spettacolo magico, di meraviglia per gli occhi.

Ma se il destino riservato alle immagini, nel loro rapporto il reale, è quello del fallimento, alla parola scritta non tocca certo sorte migliore, messa com’è al servizio della vuota retorica e dei trionfali proclami presidenziali mandati in onda in tv e alla radio. Una parola inadatta tanto a smascherare la propaganda quanto a documentare, nel finale, l’inutile richiesta di clemenza che la Storia, inesorabile, non può concedere.

 

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