L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie

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L’uomo nel bosco, l’ultimo film di Alain Guiraudie – titolo prosaico, forse scelto in accordanza/risonanza con Lo sconosciuto del lago,  del più suggestivo ed enigmatico originale Miséricorde – si manifesta fin da subito come un crocevia di doppi perturbanti e di alterazioni percettive. L’ambientazione in una cittadina della provincia francese è pervasa da un cupo e funesto silenzio che contraddice la presunta familiarità dei luoghi nei quali il protagonista Jérémie ritorna per partecipare al funerale del fornaio del paese che fu il suo primo datore di lavoro; ma lo stesso corpo di questo giovane uomo ha dei tratti in collisione tra di loro, perché da una parte il volto e gli occhi possiedono un’apertura e un’ innocenza quasi fanciullesche e disarmanti, seppur venate dai segni dell’invecchiamento di una giovinezza sfumata, mentre la sua stazza è più massiccia e muscolosa di quanto la minuta e sfuggente  apparenza dia a vedere. C’è già qualcosa di indecifrabile e impalpabile nell’aria di un contesto che invece si aspetterebbe essere descritto  come preciso, caldo, accogliente, in collegamento con il vissuto della propria memoria. Prevalgono invece sin da subito i lati oscuri,  gli angoli, gli anfratti dai quali riemerge, incarnato da Jérémie novello Terence Stamp del pasoliniano Teorema o fassbinderiano Querelle di Genet, il Desiderio nella sua declinazione più indissolubile di Eros e Thanatos, come se fosse una riemersione, alla luce di un sole comunque spento, proprio da parte del  soggetto desiderante e desiderato de Lo sconosciuto del lago, che alla fine di quel film si calava nell’oscurità di un altro bosco.

Ben presto l’immagine del defunto panettiere risalta corpo e cuore dentro una non incorniciata foto sbiadita in costume che Jérémie guarda e riguarda insistentemente con un passaggio già fortemente necrofilo e ossessivo, visto che poco prima quel medesimo corpo è stato mostrato dentro una bara. Ma Guiraudie va anche oltre, in quanto capovolge il tabù della morte come rimozione e negazione, azzeramento di conflitti e tensioni, oppure tentativo di pacificazione e di conciliazione nel condividere ricordi che invece sono stati omessi, manipolati ed elusi; al contrario la morte diventa pulsione pura che si mischia alla violenza e al piacere, o meglio alla messa in atto della prima e alla ricerca compulsiva del secondo nella forma e nella sostanza di una costante dimensione potenzialmente seduttiva. Nessuno ne rimane escluso con una predominanza dell’omoerotismo che proviene dalla conoscenza più diretta che ne ha l’autore, la sua capacità di riprodurne i meccanismi e le fascinazioni, di restituirne, pur in un’ atmosfera rarefatta ed astratta, il denso sapore carnale. Basti vedere l’interazione tra Jérémie e Walter, il bizzarro, solitario e un po’ ottuso outsider del villaggio, dalla fisicità imponente,  verso il quale il ragazzo proveniente dalla città agirà una seduzione imprevedibile, identificativa e proiettiva (ne indosserà i vestiti, come a voler dire “io e te siamo uguali”), ricevendo un rifiuto violento alle sfacciate avances, in un clima che, già nel dialogo precedente, era attraversato da un’intensa e quasi insostenibile latenza. Anche in questo senso Guiraudie compone un’opera spiazzante rispetto ai tempi e alle visioni del racconto: le allusioni e i non detti sono spezzati da improvvise accelerazioni e apparizioni, che hanno spesso a che fare con gli agiti su e attraverso i corpi, racchiusi quasi completamente nella circolarità dell’omicidio e del contatto sessuale (di fatto il sesso è richiesto e ricercato, ma mai consumato nella sua completezza).

Il microcosmo degli altri personaggi si muove, pensa e sente rispetto a questo duplice impulso scatenato da Jérémie: Martine, la vedova del fornaio che accetta e ingloba dentro la propria casa e il proprio letto , in un perverso maternage irreversible,  colui  che è stato l’amante del marito e che è l’assassino del figlio ; quest’ultimo, Vincent,  troppo iracondo, basico e selvaggio per riconoscere se non la propria omosessualità repressa, il complesso edipico che ne fa sfociare  la distruttiva manifestazione in una lotta/danza arcaica  e sensuale ( anche qui riecheggia Pasolini, quello di Accattone e de I ragazzi di vita), una trappola/tana nella quale in parte rimane imprigionato e in parte sceglie sadomasochisticamente di imprigionarsi , tra brutalità e senso di colpa, inconscia ineluttabilità e lucida, spietata manipolazione, lo stesso Jérémie. Con un contrappasso quasi ironico, non vengono escluse da un simile corpus le figure istituzionali chiamate a vigilare e ad indagare sui fatti delittuosi e sulle sparizioni, vale a dire il prete e il poliziotto . Ma se nel cinema di Chabrol, cantore e insieme etnologo anche lui dell’anima noir della piccola provincia, ogni aspetto è riportato in un’ottica fortemente critica dentro una prospettiva socio-politica, per cui appunto il potere ecclesiastico e delle forze dell’ordine viene stigmatizzato in contraddizioni e incongruenze, in Guiraudie entrambi i personaggi escono fuori a un certo punto dal contesto realista dal quale provengono ed entrano nell’aerea-spazio temporale di una progressiva e simbolica trasfigurazione. Il pensiero che a un certo punto possano diventare le proiezioni di un delirio psicotico di Jérémie alla ricerca di un’assoluzione o di una condanna è  legittimato dal crescente senso di astrazione che si appropria delle immagini e dell’ambientazione, per il quale quel villaggio cosi piccolo e claustrofobico, con pochi punti di fuga per lo sguardo, si fa palcoscenico di una messa in scena catalizzatrice dei desideri e delle nevrosi raccolte nel vagare  notturno in auto, riflesso nello spazio limitato di un parabrezza in soggettiva e piano sequenza. Ed è lo stesso sacerdote che, in nome dell’amore e dell’attrazione che anch’egli ha sempre provato per Jérémie, ne copre e giustifica le azioni, incluso l’occultamento di cadavere, e, in nome della misericordia, gli suggerisce una possibilità di (auto) assoluzione, ancora più radicale ed esistenziale.

Ma il colpo  più iconoclasta contro uno dei punti fermi dell’etica cristiana viene assestato proprio dall’ambivalenza con la quale il termine misericordia viene rivolto e attribuito: il prete in quanto portavoce, ma anche Martine, Walter, e la stessa polizia chiedono ipocritamente  compassione e perdono per la loro indifferenza e complicità di fronte alla morte che, come il corpo martoriato di Vincent, viene sepolta e disseppellita, spostata, fatta transitare per le vie vuote nell’omertà e nella non tollerabile visibilità; perché questo significherebbe rinunciare, in primis per il sacerdote che propone al ragazzo un neanche troppo velato ricatto,  al corpo vivo e pulsante di Jérémie, agognato  con una tale intensità da far mettere in discussione la propria fede, rivelandone la fragilità morale e la spinta opportunistica, e addirittura da far dimenticare alla donna  la preoccupazione e la cura materne (a un certo punto Martine non si pone quasi più il problema della scomparsa del figlio e sembra invece felice di poter finalmente possedere Jérémie solo per sé).

Così se i citati personaggi di Pasolini e Fassbinder si congedavano da questo mondo attraverso la sparizione apocalittica o lo stordimento seguito al martirio, per Guiraudie si resta ancora una volta imbrigliati nell’inferno in terra di un compromesso domestico/clericale. Una confort zone che assomiglia alla condanna permanente espiata in un perimetro di condizionamenti  e divieti, inflitta dalla misericordia tracotante di un Angelo sterminatore.

In sala dal 16 gennaio 2025


L’uomo nel bosco (Miséricorde) – Regia e sceneggiauta: Alain Guiraudie; fotografia: Claire Mathon; montaggio: Jean-Christophe Hym; musica: Marc Verdaguer; interpreti: Félix Kysyl, Catherine Frot, Jacques Develay, Jean-Baptise Durand, David Ayala; produzione: Charles Gillibert, Olivier Pére, Joaquim Sapinho, Albert Serra, Montse Triola, Marta Alves; origine: Francia, 2024; durata: 102minuti; distribuzione: Movies Inspired.

 

 

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