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Voto
Come alcune delle creature e delle suggestioni che lo popolano e l’attraversano, Basileia, opera prima di lungometraggio di Isabella Torre, è un film ibrido, che fa intersecare due modi di guardare alla realtà, al paesaggio, al racconto; un’ impostazione realistica e secca, quasi da noir d’ambientazione rupestre, e l’ innesto progressivo di una dimensione fantasy che crea digressioni e e stratificazioni. Quest’ ultimo termine è il più efficace per descrivere il duplice livello sul quale il film si muove, anticipato dalla scena iniziale di un branco di lupi che popolano l’apparente desolazione di un paese alle pendici dell’ Aspromonte in Calabria.
L’ attenzione si sposta poi sul presunto protagonista, un archeologo scozzese in cerca di un non precisato tesoro per conto di un locale boss delle camorra, rivelando una spregiudicatezza nel cercare qualsiasi tipo di mecenati e finanziatori, combattuto tra il proprio assoluto desiderio di ricerca e di conoscenza e un’ avidità che prima o poi verrà espiata. Un personaggio ambiguo del quale non vengono date molte informazioni e neppure approfondito un aspetto psicologico, e di cui quello che si è detto e dedotto da dettagli, particolari, frammenti di dialogo comunque misteriosi (persino la sua dichiarata origine scozzese è contradetta da una telefonata in cui parla in danese con un altro potenziale sponsor per le sue ricerche). Anche il suo incipit, dopo l’immagine d’apertura dei lupi, è nel segno di una minaccia, di un pericolo, di uno sbranamento da parte dei cani che sorvegliano uno dei luoghi predati per questa profana caccia al tesoro. L’ iter prosegue con il reclutamento di una nuova “squadra” , tra gli abitanti della multietnica comunità di Rosarno; e qui entra in campo l’ elemento sociale attraverso la figura di Keykey, un emigrato del Burkina Faso, anch’ egli diviso tra un vita necessariamente di espedienti e un senso di dignità e correttezza, nonché di fiducia verso l’ altro, che sia l’irlandese, l’unico nome con cui si presenta l’ archeologo, da cui viene reclutato per un’ incursione nella fitta boscaglia della zona, o il ragazzo calabrese suo amico che coinvolge nell’ impresa per condividere il guadagno promesso dal prezioso bottino recuperato e trafugato. A un certo punto succede poi qualcosa che non può essere considerata una cesura tra una prima e una seconda parte, ma il corto circuito con una traccia già evocata : l’ emersione dalla viscerale e radicale oscurità della terra di un sottostante regno (basileia) fatto di creature ninfee (e Ninfe è il titolo di un corto di Torre del 2018): un ritorno al e del Mito, della leggenda, del folklore dentro la declinazione di corpi femminei nudi che, rifiutando la connotazione dell’organo sessuale, anticipano ed annunciano la fluidità di un nuovo mondo che soverchia dall’ interno il concetto di identità. Non solo e non tanto la questione del genere, quanto la rigidità di un microcosmo antico presentato nelle sue fattezze anche più torve e ambigue, inclusa la collusione tra un convento di suore e il patriarca mafioso, e destrutturato, ancora una volta, fino alle radici dalle presenze eteree e carnali sprigionate dal dissotterramento di un proibito e recondito vaso di Pandora.

E questi elementi diventano mano a mano, in una forma sempre più sovrapposta, tasselli che si intarsiano dentro il paesaggio come non mai riportato alla sua configurazione di Natura dotata di uno spirito loci. Su un piano di rappresentazione l’immaginario di riferimento sembra quello delle fiabe horror ( l’ultima che viene in mente è The Watchers-Loro ti guardano di Ishana Night Shyamalan, con una predisposizione e una predilezione più umanista e melodrammatica degli archetipici esseri mutanti) che frequentemente ha trovato nel bosco i tratti inquietanti di un perturbante che allude ed evoca, prima e più di far comprendere e far vedere. La triade di creature che si aggira per le vie arcaiche dell’ arroccato villaggio calabrese non ha occhi ma si muove guidata da un istinto di riscatto e di liberazione che si esplica nel riprendersi lo spazio e i corpi altrui, degli autoctoni come dell’ archeologo, i quali a loro volta assistono inermi al capovolgersi del loro status antropocentrico assumendo le sembianze di piante antropomorfizzate; il simbolismo è chiaro, gli esseri umani sfruttatori e usurpatori, che tendono a dominare con il potere e con il soldi- l’apice della piramide è rappresentato dall’organizzazione criminale, ma alla base c’è anche l’erudito “irlandese” che usa i soldi, e la promessa di tanto denaro, per avere KeyKey dalla sua, sottovalutandone l’istintiva saggezza rispetto alla disperata necessità -e alla fine rimangono assorbiti dal territorio , ne diventano una risorsa e ne alimentano la vegetazione.
Una riflessione dunque dal respiro ampio e ambizioso, che a volte trascende il risultato espressivo finale, o forse ne occulta volutamente la compiutezza, la possibilità di decifrazione. I differenti livelli infatti non sempre comunicano e si rimane ad uno stadio di puri segni dentro i quali si scioglie e si consuma la parvenza di trama costruita, senza dare più spiegazioni o motivazioni rispetto al destino di nessuno. È come se ci fosse una regressione del logos e un incremento del pathos, della parte irrazionale, primitiva, cieca e sorda ai richiami di una lingua e di un linguaggio; un evento davanti al quale lo stesso studioso anglofono, che ne intuisce la portata culturale e potrebbe cercare di mediarne il passaggio tra i due mondi, nel migliore dei casi rimane affascinato come nei confronti di un oggetto di investigazione intellettuale e nel peggiore ne utilizza in modo strumentale il potenziale sfruttamento economico. L’alone, se non proprio l’impronta vista una qualità ancora acerba e talvolta ingenua della regia di Torre, sta nell’opacità, piuttosto marcatamente espressa dalla presenza della nebbia montana, che avvolge le immagini e vorrebbe risolverne le contraddizioni, le evocazioni e i sensi in un’atmosfera perennemente ipnotica, sospesa, inquietante (la suora che si fa il segno della croce di fronte allo sciame di mosche che circonda le vetrate della chiesa fa pensare a Il signore del male di John Carpenter, nonostante qui il risvolto trascendentale sia catartico e risanante). Un tratto comune con la trasfigurazione realistica del cinema di Jonas Carpignano, che infatti ne è il co-produttore e montatore, a dire la fermezza di voler proporre una prospettiva più inusuale e sorprendente su un territorio, quello del Sud Italia, svilito a morboso scenario para-televisivo di violenze e degrado, o di un superficiale e decorativo naturalismo ad uso e consumo.

Questa anarchica tensione sottopelle nel caso di Torre è riuscita a tratti, soprattutto nella parte finale che molla qualsiasi velleità di tenere insieme gli opposti e si sbilancia, anche un po’ troppo, verso situazioni che sarebbe stato il caso di approfondire nella verticalità e vertigine visionaria di uno sprofondamento, in funzione anche della durata, un’ora e mezza circa, probabilmente non sufficiente vista la tanta carne al fuoco. Siamo ancora dunque perplessi seppur affascinati sulle scia della passerella di quelle tre ninfe che prima di estendere completamente il loro regno sotto i cieli, continuano a vagare- loro o le loro epigone-in lungo, in largo e in cerca di uno sguardo e non solo di un’apparizione.
Passato in Anteprima alle Giornate degli Autori di Venezia 2024.
Basileia – Regia e sceneggiatura: Isabella Torre; fotografia: Melanie Akoka; montaggio: Jonas Carpignano; interpreti: Elliot Crosset Hove, Koudous Seihon, Angela Fontana, Marco Raco, Ilaria Caffio, Ylenia Romano; produzione: Jonas Carpignano, Katrin Pors, Anthony Muir per Stayblack, Snowglobe, Film i Vast, Rai Cinema con il sostegno di Fondazione Calabria Film Commission; origine: Italia/Svezia/Danimarca, 2024; durata: 90 minuti.
