MedFilm Festival XXX edizione (Roma 7-17 novembre): Breath di Ilaria Congiu (Atlante).

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Il mare viene associato spesso alla duplice idea di nascita e di viaggio, di liquido amniotico e di flusso attraverso il quale scorrono e si trasformano gli spazi, i tempi, i ricordi. Ed è un registro doppio anche quello adottato da Ilaria Congiu, autrice debuttante nel lungometraggio di Breath, che compie un’indagine privata nella propria storia familiare, in particolare la relazione con la figura paterna, e una invece, comunitaria e politica, che racconta l’uso e l’abuso dell’elemento marino, in particolare la fauna ittica; una speculazione selvaggia e neoliberista ha infatti devastato gli ecosistemi dei Sud del Mondo e conseguentemente le economie, in particolare quelle locali e al dettaglio, lasciando la desolante sensazione di resa e sconfitta sulle sponde di una visione quasi apocalittica, evocata seppur stemperata dallo struggimento di un tramonto.

Lo sguardo di Congiu si professa, nella cornice di apertura e di chiusura, quello di una bambina che tenta di recuperare la percezione schietta, diretta, meravigliata nei confronti del mare, che non ha mnemonicamente la connotazione della madre, ma il volto del padre interlocutore che cerca di dare risposte e offre spunti di riflessione, che sopperisce ad un’assenza di lunga durata e a una necessità di consapevolezza; uno spazio dove la stessa Ilaria, entrando in scena corpo e voce ad interloquire con lui, si fa per interposta persona portatrice di un’ istanza di verità transgenerazionale. Il punto di vista sulla questione ha il suo nucleo, e la valenza di incrocio dal quale transitano tutte le contraddizioni, in Senegal, il paese nel quale il signor Congiu si era trasferito molto tempo prima, creando e diventando il dirigente di un’azienda produttrice ed esportatrice di pesce surgelato, approfittando della feconda pescosità di quelle acque (Ilaria a un certo punto era invece tornata in Italia con la madre): un microcosmo che avrebbe dovuto espandersi in benessere collettivo, parliamo dei primi anni’80 un momento di vacua e apparente floridità e pienezza, e che invece è stato tramortito fino allo sfinimento, dall’avidità compulsiva, la cui coda chiaramente sono gli usi e le abitudini ormai insostenibili e incompatibili dei consumatori; e sono in particolare le grandi compagnie pescherecce che, in un’idea di capitalismo estrattivo, si appropriano, catturano, spostano enormi quantità di pesci, gestiti e lavorati in un’ottica industrializzata e massificata. Le immagini panoramiche sulle gabbie volanti dentro le quali si aggirano branchi di tonni storditi, trasportati dalla Calabria a Malta, restituisce il senso della costante e sistemica assenza di limite e cura, e di un paesaggio marino i cui contorni sono continuamente spostabili e ritracciabili, non però in una versione virtuosa di rigenerante possibilità , bensì nell’affermazione di un potere predatorio.

L’intenzione di Congiu è quella di tenere insieme il livello autobiografico, la riflessione etica e persino un intento pedagogico, con gli inserti delle lezioni universitarie del biologo marino Silvio Greco (una soluzione intelligente che ha degli illustri predecessori, su altra scala e differente declinazione ovviamente, come la presenza del filosofo Henri Laborit che illustra e spiega in chiave antropologica i comportamenti dei personaggi di Mon oncle d’Amerique di Alain Resnais); e il montaggio segue questi fili narrativi dislocati per una sorta di triangolo socio culturale della storia della pesca – tra Italia, Senegal e Tunisia – che ne è anche il più colpito e mortificato territorio, la costa dove non batte nessuna utopia se non il porto, al contrario, di una civiltà in decadenza.

Per questo la maggiore efficacia la possiedono i momenti di dialogo, oltre che tra la regista e il padre (dove ci sono una naturalezza e una pacatezza, nonostante l’intensità del vissuto comune, davvero apprezzabili), quelli con Ibrahima, che lavora al mercato del pesce di Dakar, e che, con una sommessa dignità, ricorda il prima e il dopo, il passaggio dalla qualità e la specificità alla proliferazione e allo spreco, nonché il lento scollamento tra le esigenze nutrizionali dei popoli e le sempre più scarse risorse.

L’apparato visivo segue, con una corretta linearità, le parole e le testimonianze: alle immagini di un oggi arso e impoverito, nel quale si ricorre all’importazione come forma di sopravvivenza residuale di un fondale depredato-e senza la lungimiranza di vederne l’imminente fine- si intersecano il found footage di un’epoca di maggiore equità e prosperità (coincidente con gli home movies della famiglia Congiu), e si accentua dunque lo scoramento degli adulti e l’indignazione dei giovani. Sentimenti che vanno di pari passo per Ilaria, la donna e la bambina, con il ritrovamento di un amore interrotto o messo tra parentesi nei confronti del suo mare, nella riscoperta di un’esperienza che è primariamente e generativamente sensoriale.

Uno dei passaggi toccanti è proprio quello in cui la piccola Ilaria si chiude dentro un cartone e riesce adulta da un’immersione subacquea, recuperando – in maniera esplicita se non addirittura didascalica- il respiro vitale di un’acqua che riporta anche semplicemente una storia, la sua. Partire dalle relazioni, dal dettaglio, dal minimo comune denominatore di dare una centralità alle storie (come esordisce lo stesso prof. Greco nel suo primo intervento), per Congiu significa inoltre raccogliere le testimonianze dei pescatori siciliani, sospesi nel tempo, per quanto ancora ne rimane, di differenti generazioni  (in netta contrapposizione con la pratica senza volto del sistema industriale e capitalistico).

Non tutto è sempre a fuoco e qua e là può esserci qualche squilibrio, visto che la struttura pluridimensionale, per un esordio, era piuttosto rischiosa. Ad esempio un uso più misurato delle musiche avrebbe dato maggiormente respiro al fluttuare tra i diversi livelli, che talvolta perdono il loro ritmo in una struttura didascalicamente a blocchi. Ma la sincerità e la passionalità di questa giovane donna e documentarista, che in un pianto trattenuto ha il coraggio di augurarsi la scomparsa dell’ umanità prima di quella di mari e oceani, colpisce nel segno e tocca il cuore e la mente.

Come le parole di chi lavora su un peschereccio ogni giorno e ogni notte, e continua ad attendere una nuova alba, dopo ogni abissale tramonto.


Breath  (Souffle) – Regia e sceneggiatura: Ilaria Congiu; fotografia: Marco Petrucci, Gabriele De Palo; montaggio: Luca Carrera;musiche: Lorenzo Tomio; produzione: Mediterraneo Cinematografica (Italia),  Propaganda production (Tunisia) in collaborazione con MyMovies, con il supporto di Calabria film Commission, Ministero della Cultura e del CNCI. //No Francia; origine: Italia/Francia/Tunisia 2024; durata: 73 minuti.

 

 

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