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Voto
Tony Gatlif è un regista che sa e fa quello che vuole. I suoi film sono folli e liberi, indefinibili e affascinanti, tessuti nelle maglie di un racconto che mescola sempre musica e sogno, inframezzando canti e danze di corpo e anima.
Vedere Ange equivale a fare un viaggio, a perdersi destituendo il potere centrale del cervello e accendendo il sensore della percezione: Ange è un uomo libero, un vagabondo ma non un monaco (dirà all’amata che gli chiede se ha altre donne), un musicologo, uno che sotterra scatole di ferro (meglio di una banca) con dentro pubblicazioni sulla musica gitana della Andalusia che contengono, nascoste tra le pagine, banconote che sono un debito da saldare.
Basta un van per dormire ovunque, basta un fiume per suonare l’acqua e vivere un’estasi dei sensi, basta far perdere le proprie tracce per non dire ti amo. Ange ha la barba bianca e il corpo veloce, magro e dinoccolato salta da un attimo al successivo intento a non perdere nulla del presente. Parla poco e pensa molto, è abitato dalla musica, quando non la ascolta la suona, quando non la suona la fiuta nell’aria, la afferra con i gesti delle mani, la rivela tramite la curva di un braccio che somiglia a un tronco centenario su cui la macchina da presa indugia per tutto il tempo che necessita alla musica di trovare il passo.
Ange è un fuggiasco che torna sui suoi passi, cosa ha lasciato, cosa ritroverà: attraversando un bosco arriva da Georgina (Maria De Medeiros), un caschetto di capelli bianchi di schiena, che appena lo vede si commuove e inizia a piangere un pianto felice, un pianto che è sorriso e amore, che parla di unione e vicinanza. Sono una coppia di innamorati che non si vedono da anni ma i cui corpi gioiscono solo a stare vicini. La donna ha una figlia che si è fatta grande, di cui Ange chiede notizia. Il suo nome è Solea, ha lasciato un posto in una cooperativa agricola e non si sa bene come si sostenga. I due amanti passano la notte insieme, Georgina massaggia Ange sulla schiena, Solea passa di nascosto a casa per prendere dei vestiti, li vede in una intimità che ricorda e non interrompe. L’indomani Ange va via, riprende il suo cammino alla ricerca di Marco, col quale si sente in debito. Dopo qualche chilometro si rende conto che Solea sta dormendo dentro il van. Non si conoscono più, la ragazza è certa che lui sia suo padre, Ange non nega ma non ammette, danza sul filo del proverbio, si prende cura di lei con una gentilezza inattesa, ha pazienza quando le riconosce spigoli che parlano di sé stesso. Senza compiacimento verso una limpidezza di trama, per un’ora e mezzo, Gatlif ci mostra padre e figlia, entrambi forastici, inselvatichiti dalla vita, reattivi e iper senzienti, silenziosi, fisici, tendenti a iperattività, mentre provano a conoscersi, a tendersi la mano senza graffiarsi, a non soffrire troppo ad aprirsi un poco: il viaggio dentro e fuori di loro nelle strade sotto la pioggia, nei paesaggi solitari, in una natura audace e catturante, innominata e innominabile, fuori dal tempo e dalle coordinate, senza definizione né nome.

Tutto intorno musica! Con un uso diegetico surrealista – suonatori a bordo di strade dissestate tra rocce e dirupi, musicisti di sitar in una comune circense, solisti a cappella cantano Sebben che siamo donne/ paura non abbiamo/ abbiam delle belle e buone lingue (…) esibendosi in ristorantini sperduti nel nulla – le note di musiche di molti stili diversi provenienti da molti paesi del mondo si snocciolano via via folgorando lo spettatore dalla voglia di alzarsi e mettersi a ballare.
Ange è interpretato da Arthur H, cantautore francese dai molteplici talenti, che suona svariati strumenti e agisce come qualcuno che sente la melodia nelle viscere, come deve essere Ange, perfetto dunque nel ruolo. Il cast è perfetto, protagonisti attori professionisti di alto livello (Arthur H., Maria De Meideros, Mathieu Amalric, Suzanne Aubert), musicisti provetti, comparse in parte, ogni viso racconta qualcosa in più, ogni ruga, ogni espressione, ogni taglio degli occhi, ogni sorriso ha senso e ne aggiunge ad una storia per certi versi strampalata ma, in vero, intrisa di libertà. Tra simbolismo, spaesamento, momenti di trance musicale, corse cadute risalite, un cinema indipendente e senza compromessi capace di trasmettere emozione, intenso come un tuffo in acqua gelata, una scossa elettrica al sistema nervoso, una risata selvaggia, un urlo spiazzante nel buio della notte, un travolgente ritmo zigano, un gesto gentile fatto in totale gratuità.
Galvanizzante scena finale con Mathieu Amalric che interpreta Marco, l’amico finalmente ritrovato, in un trio danzante che scalda l’anima e travolge il più insensibile dei cuori (Marco dice a Solea: Ti ha dato il nome di un flamenco, la Solea è la madre di Canet Jondo, è il suo modo di dire ti amo).
Ange – Regia: Tony Gatlif; sceneggiatura: Valentin Dahmani, Tony Gatlif, Patricia Mortagne; fotografia: Lazare Pedron; montaggio: Cesar Simonot; musica: Tony Gatlif, Delphine Mantoulet, Fiona Monbet, Arthur H.; interpreti: Arthur H., Suzanne Aubert, Maria De Medeiros, Mathieu Amalric, Christine Citti, Dominique Maurin, La Caita, Juliette Minvielle, Fiona Monbet, Ilir Selmonskim; produzione: Princes Production, Pastorale Productions; origine: Francia, 2025; durata: 97 minuti.
