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Voto2,5

Ci sono alcuni film, documentari soprattutto, di cui vorremmo parlare solo bene, perché partono da una intenzione nobile, importante, colmano una lacuna nella conoscenza e nella memoria pubblica, perché sono film eticamente irreprensibili. Poi però, che lo si voglia accettare o meno, questo non basta, il cosiddetto contenuto è solo l’inizio, ci vuole anche una forma convincente, una drammaturgia in qualche misura rispettosa di certe convenzioni formali, se vogliamo anche della tradizione, dell’evoluzione che una determinata forma ha subito nel corso del tempo. Il film intitolato Mizrahim- Les Oubliés de la Terre Promise di Michale Boganim (regista, specializzata in documentari, nata a Haifa nel 1977), una produzione di origine francese presentato alle Giornate degli Autori veneziane, rientra esattamente in questa categoria. Al centro del film c’è un dato che non conoscevamo e per la qual cosa non possiamo non essere grati all’autrice: fin dalla sua fondazione lo Stato d’Israele ha sottoposto tutti gli ebrei provenienti dai paesi dell’Africa Settentrionale (Marocco, Tunisia, Algeria) e del Medio Oriente (Iran, Iraq, Yemen, Siria) – che al pari degli ebrei provenienti dall’Europa e dagli USA hanno voluto credere nella possibilità di una palingenesi, nella fine della diaspora, nel ritorno alla Terra Promessa – a una sistematica emarginazione, segregazione, ghettizzazione. Il sogno della Terra Promessa si trasforma dunque nell’arco di pochissimo tempo in un autentico incubo fatto di soprusi che hanno inizio fin dallo sbarco in Israele dove i cittadini provenienti dai paesi summenzionati vengono nottetempo caricati su camion e istradati non già verso le agognate Gerusalemme o Tel Aviv ma nelle zone più remote e più deserte del paese a popolare zone a malapena edificate, in condizioni nella gran parte dei casi ben peggiori di quelle dalle quali costoro provenivano. “Mizrahim” venivano chiamati costoro, ovvero ebrei orientali, ben presto divenuti – già per via del colore della pelle che li faceva pericolosamente assomigliare alle popolazioni arabe e palestinesi con cui era già in atto quel conflitto che ancora oggi è ben lungi dall’essere risolto – una etnia dalla quale stare a distanza, anche in quei pochi casi in cui l’etnia dominante, ovvero quella ashkenazita, si trova in qualche misura a dovervi convivere – e allora assistiamo, per esempio, a scuole con ingressi separati. Fa orrore immaginare che l’etnia dominante abbia per decenni sottoposto l’etnia minoritaria dei mizrahim a trattamenti non troppo diversi da quelli a cui loro stessi o i loro parenti erano stati sottoposti in Germania nel corso dei primi anni del regime hitleriano. Ebbene, questa dinamica socio-politica, tuttora per larghe parti imperante e a chi scrive sconosciuta, viene raccontata tramite un evento cornice, un ingenuo espediente di trasmissione della memoria, con tanto di voce fuori campo dalla regista stessa la quale, rivolgendosi alla figlia anch’essa reiteratamente inquadrata, intende raccontarle la biografia del padre di lei, dunque del nonno della bambina, Charles Boganim, morto nel 2017 (vedremo la sua tomba, ad autentificare in modo definitivo il testo, nelle scene finali) e appunto esemplare di una generazione, nata sul finire degli anni ’30 o all’inizio degli anni ’40, che decide a un certo punto di lasciare il proprio paese d’origine per andare incontro alla Terra Promessa, la quale, come detto, si rivela ben altro. Boganim, deluso, deciderà di lasciare Israele trasferendosi in Francia, tornando in seguito anche a visitare il Marocco, e restando di fatto (un destino questo, lo si capisce bene, che divide anche con la figlia) un cittadino senza patria, spaesato, perennemente esule. La cornice si rivela un espediente esile, ingenuo e per larghi tratti patetico, anche sul piano filmico con continue inquadrature in automobili, treni e altri mezzi di locomozione a significare una definitiva erranza. Ma i continui spostamenti hanno, almeno in apparenza, anche un’altra funzione: l’autrice va in giro per alcune delle cittadine o paeselli, spesso di recente o recentissima costruzione, puntualmente evidenziate in stampatello maiuscolo a colori, a rintracciare testimonianze da parte di altri mizrahim coetanei del padre o anche più giovani che di fatto non fanno altro che raccontare sempre e inevitabilmente la medesima vicenda, storie di emarginazione, segregazione, ghettizzazione, talché le informazioni e il messaggio complessivo del documentario diventa inesorabilmente ridondante. A fungere da contrappunto alle varie tappe, ai vari incontri Boganim inserisce molte immagini documentarie del passato che ritraggono gli sbarchi in Israele dei mizrahim pieni di speranza e ben presto delusi, immagini non dissimili da quelle che siamo abituati a vedere che so io a Ellis Island, rispondenti allo stesso principio oppositivo la Terra Promessa che si rivela Terra Maledetta (venivano all’arrivo spruzzati di DDT perché visti come potenziali portatori di chissà quali malattie); nel film ascoltiamo anche molta musica che in larga parte, ora con toni melodico-patetici ora con toni più aggressivi e moderni, le medesime storie di soprusi e, almeno a partire da un certo punto, di protesta. S’impara molto in questo film: ad esempio che intorno al 1968 i mizrahim ribelli, sentendosi i “neri” d’Israele, presero a modello del loro agire politico le Pantere Nere americane (nella dedica finale al padre il regista, lo appella proprio Pantera Nera), ma la guerra dello Yom Kippur del 1973 finì per ricompattare le diverse etnie e le diverse classi sociali; s’impara molto, ma il film, in quanto tale, ingenera ben presto la noia della ripetitività.
Cast & Credits
Mizrahim – Les Oubliés de la Terre Promise – Regia: Michale Boganim sceneggiatura: Michale Boganim; fotografia: Nathalie Durand; montaggio: Pierre Dechamps; ; produzione: Marie Balducchi; origine: 2021 Francia; durata: 93′.
