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Ci sono documentari che “scoprono” immagini mai viste o poco viste e documentari che assemblano immagini viste o molto viste e il cui valore consiste nel modo in cui queste immagini già viste vengono combinate e riattualizzate. A questa seconda categoria appartiene l’opera che Billy Shebar, regista americano cimentatosi fin qui in serie televisive e cortometraggi, (accompagnato da David Roberts) che con Monk in Pieces esordisce nel documentario. Il “Monk” in questione non è un monaco, né il jazzista Theolonious Monk ma la cantante, attrice e ballerina Meredith Monk (1942), una delle figure di spicco del panorama off newyorchese dapprima e poi globale, dagli anni ’60 fino – si può dire – a oggi. L’atto di fondazione della straordinaria carriera di Monk (famiglia dell’Est Europa, di origine ebraica, tutti con spiccate tendenze artistiche, la madre, essa stessa attrice e cantante, divenuta celebre cantante di pubblicità, di commercials come si dice negli USA) è forse da rintracciarsi nella performance, definita “cantata teatrale in tre installazioni” intitolata Juice, tenuta fra le spirali del Guggenheim Museum nel novembre del 1969, ma nei meravigliosi anni Sessanta newyorchesi il talento di Monk lo si era già notato già da qualche anno.
Il principale talento di Monk è la voce, capace di coprire più di tre ottave, intorno a cui è stata costruita una quantità di performances in giro per il mondo, che ha visto protagonisti diversi ensembles composti di cantanti, attori e ballerini provenienti dai più diversi paesi; Monk ha creato dunque una autentica scuola e ancora oggi non si contano i reverenti allievi o colleghi che la considerano una figura faro di quello che dagli anni ’70 in avanti si è soliti chiamare teatro danza.
Il documentario, il cui titolo, gioca sull’ambiguità della parola pieces (pezzi, all’inglese, ma certamente anche pièces, ovvero pezzi teatrali alla francese), scompone e ricompone, seguendo una linea tutto sommato cronologica il percorso artistico di Meredith Monk, attingendo all’abbondantissimo materiale video esistente, video di performances, interviste in studi televisivi e cinematografici ma anche nel celeberrimo loft The House, luogo di vita e di lavoro dell’artista che, se non abbiamo capito male, lei abita tuttora. A questo materiale vengono ad aggiungersi interviste a vecchi e invecchiati compagni di strada, ma anche a personaggi famosissimi fra i quali spiccano i nomi di David Byrne e di Björk, che si annoverano senza riserve fra i suoi allievi. A tutto ciò vengono altresì ad aggiungersi alcune brevi sequenze che ritraggono Monk al giorno d’oggi mentre compie esercizi di ginnastica, mangia, passeggia, in una casa divenuta forse troppo grande per un’artista che di lontano ancora segue quel che accade nel mondo del teatro-danza ma che, in larga parte, per ovvie ragioni si è ritirata dalle scene. Spicca in mezzo al tanto footage utilizzato, la cerimonia di consegna di un’onorificenza attribuitale da Barak Obama, malinconica testimonianza, oggi, (la stessa sensazione avvertita vedendo il biopic su Bob Dylan, A Complete Unknow) di un’America (e di istituzioni americane) che non si capisce davvero che fine abbia fatto.
Il film, in omaggio al titolo, è suddiviso in capitoli piuttosto brevi (sarebbero per l’appunto questi i pieces) che vorrebbero dare contezza delle varie sfaccettature, anche diverse, della protagonista. In realtà questi pieces compongono un mosaico perfetto, a cui non poco contribuiscono delle originali scene di animazione che illustrano momenti onirici di cui parla l’artista, momenti perfettamente integrati in una narrazione tutto sommato più tradizionale di quanto voglia presentarsi.
Monk in Pieces – Regia e sceneggiatura: Billy Shebar; fotografia: Jeff Hutchens, Ben Stechschulte; montaggio: Sabine Krayenbühl; interpreti: Meredith Monk, Björk, David Byrne, Ping Chong, John Schaefer; produzione: 110th Street, St. Marks Productions, ZDF, Arte; origine: Usa/ Germania/ Francia 2025; durata: 94 minuti.
