Omaggio a Jean-Luc Godard: nell’istante eterno di un’immagine-pensiero.

“… Le parole dovrebbero esprimere esattamente quello che vogliamo dire. Forse ci tradiscono?” “Si però anche noi le tradiamo. Si deve provare a dire quello che c’è da dıre e che si scrive bene”. È possibile trovare le parole per racchiudere il senso di un’esperienza così estesa e coesa nel gesto creativo, nella vita pubblica e privata, nel pensiero sulla politica e sull’ arte come quella di Jean-Luc Godard, venuto a mancare all’ età di 91 anni, il 13 settembre 2022?.

Nel cercare di dire qualcosa su di lui o, più esattamente, di elaborare la perdita di un padre putativo che ha costantemente generato e rigenerato un immaginario personale e collettivo sono dovuto tornare al dialogo citato  nell’incipit di questo articolo, quello al Bistrot tra la belle de jour Nana e il filosofo del linguaggio Brice Parain in Questa è la mia vita: uno dei momenti che più mi hanno turbato perché messo a confronto con la mia capacità di pensare e di comunicare, richiamato alla concentrazione su quell’immagine-pensiero dallo sguardo di Anna Karina rivolto in macchina (velato inizialmente da un’indolenza e una malinconia che si tramutano poi, durante la conversazione,in necessità di comprendere e poi in consapevolezza). Uno sguardo che riflette e fa riflettere, e che pone subito una questione : la difficoltà di rapportarsi alla morte di Godard sta nel fatto che i film da lui realizzati, in qualsiasi momento della sua e della nostra esistenza, sono declinati al presente dell’istante che stiamo vivendo e collocano il pensiero in un qui ed ora che mette insieme la dimensione corporea nello spazio e nel tempo, con quella astratta dei concetti che formuliamo su ciò che accade intorno a noi e che, attraverso le parole, cerchiamo di esporre per entrare in relazione. Ma sempre il filosofo di Vivre sa vie inserisce un ulteriore spunto di discussione con il racconto del personaggio di Porthos de I tre moschettieri: agire e pensare possono talvolta entrare in collisione se dissociati tra di loro, come accade appunto a Porthos che comincia a pensare nel momento sbagliato e muore.

E il cinema di Godard in fondo si è e ci ha sempre confrontato con lo slittamento asincronico tra finzione e verità, corpo e parola, politica e poesia, vita e morte. Ha fatto vedere, con un distacco mai sterile o gratuito, nel furore anche sentimentale degli anni giovanili e nella maturità sgomenta dell’ultimo periodo, tutte le possibilità e le resistenze rispetto alle immagini già generate o ancora da generare e una su tutte ha smontato la macchina cinema dal suo interno: quel 3D mostrato nudo, come effetto non lavorato, al suo stadio di making off, appoggiato all’immagine del cruscotto di una macchina in forma quasi gelatinosa, con una suggestione “combustibile”, da celluloide. Il film in questione si chiamava Addio al linguaggio: la constatazione di una morte, sulle ceneri della quale si proponeva l’alfabetizzazione degli spettatori-esseri umani per mezzo di una nuova lingua, un inizio che implicava un reset pre- umano nel passaggio attraverso la natura animale (quel cane più vero del vero) .

Già la sua Histoire(s) du Cinema audiovisiva ( il primo dei quattro episodi venne presentato a Cannes nel 1988, mentre il secondo ha sedimentato altri 10 anni) è fatta di una materia/ materiale costantemente mutante, anti monumentale e anti compilativa, dentro la quale è il soggetto, lo stesso Godard, a mostrarsi nel processo di costruzione e decostruzione della struttura concettuale e della sostanza contingente delle sue storie contenute dentro la storia del cinema. Un caleidoscopio contaminato dalla parzialità della propria memoria , infiammato dal laico culto degli innamoramenti cinefili, amplificato dagli incontri che restituiscono l’eco del passato e l’attualità dello stato delle cose. La volontà di scardinare tutto ciò che si presentava come unicum monolitico e dato per incontestabile e indiscutibile, a cominciare proprio dall’atto di vedere ricondotto alla sua essenza di testimonianza, in particolare nelle attese delle continue apocalissi, sfiorate ed evocate, del sanguinoso secolo breve; la rivendicazione di una libertà anti istituzionale e anti accademica, senza rinunciare alla provocazione egotica ridotta, nell’era della riproduzione infinità del sé attraverso la molteplicità degli schermi e dei supporti video, a scomposizione e variazione del nome in un gioco di fonemi assonnanti e associazioni dissacranti(God-art). Uno spirito coltivato fin negli anni ferventi dei giovani turchi dei Cahiers du cinema, spalla a spalla con Francois Truffaut, con il quale, a partire dagli anni 70, il periodo delle scelte più radicali dal punto di vista politico ed estetico, ci sarà una frattura violenta e dolorosa per le non riconciliabili concezioni reciproche del flusso vita-cinema: sfacciatamente ripiegata su una dimensione minimale, intima e sentimentale per Truffaut, con un Godard al contrario sempre più proteso a mandare in crisi e far esplodere le forme convenzionali del linguaggio cinematografico e, insieme ad esse, di una realtà della quale assorbiva il disorientamento, la rabbia e il caos generazionali ed identitari. Basti pensare che nel fatidico ’68 uscivano Baci rubati e Week End-una donna e un uomo da sabato a domenica dentro i quali si ritrova il nucleo della dissonanza Truffaut-Godard: nel primo, capitolo di passaggio della saga di Antoine Doinel, l’ ormai giovane adulto attutiva l’impatto rivoluzionario dell’orizzonte, intravisto nello sguardo sperduto e febbricitante del close-up finale de I quattrocento colpi, su una più rassicurante  nota domestico/familiare/malinconica; nel secondo c’è invece la coppia, fino a quel momento centrata e centrale nella poetica godardiana di ridefinizione delle forme del cinema come allargamento dello spazio percettivo del rapporto a due ( in fondo abbiamo tutti partecipato alla parafrasi filmica della sua storia con Anna Karina) , a partire dallo sconvolgente Fino all’ultimo respiro: un movimento che alterna il respiro aperto di un piano sequenza circolare (i menages a trois da pochade neutralizzata in La donna è donna o da contro noir dell’anarchia e del disagio giovanili in Bande a part) e la frammentazione del dettaglio nel montaggio (i corpi desiderati, desideranti o torturati, letteralmente e simbolicamente, in Una donna sposata e Le petit soldat). Ma in Week End appare più virulento il contro campo (solo figurato, perché c’è il trionfo del long take godardiano nella memorabile sequenza dell’ingorgo automobilistico) del mondo impazzito, grottesco, acidamente colorato e trasfigurato.

Che la parte esplicitamente maoista e rivoluzionaria di Godard inizi da qui non lascia sorpresi, come se ci fosse la necessità di ritrovare una direzione, una disciplina, un’ appartenenza, andando a scavare magari nell’essenzialità laica del ragionamento filosofico illuminista (l’Emilio di Rousseau citato ne La gaia scienza), pur mantenendo il coraggio del paradosso nell’impostazione didattica e brechtiana della messa in scena (Vento dell’est, Crepa padrone, tutto va bene).

No, decisamente Truffaut scelse di seguire un ‘altra strada, sostenendo che “i film vanno avanti come dei treni che viaggiano nella notte” (battuta del suo personaggio di regista in Effetto notte), suscitando la reazione beffarda e sdegnata di Godard (” si, ma non dici di che categoria è il treno e a quale classe sociale appartiene il conducente “). E quando la locomotiva godardiana, che aveva seguito fino in fondo un’altra traiettoria, uscì dal tunnel dell’impasse sanguinaria e stragista nella quale si era arenato il marxista sogno di una cosa chiamata rivoluzione, il suo capitano torno’ alla fiducia basica nel valore semiotico del cinema come puro significante, contenitore di tutte le implicazioni etiche ed estetiche messe a ferro e fuoco dagli anni dell’impegno e della lotta. Enormi set costruiti sulle ceneri di una magnifica ossessione all’imbocco dell’amarezza post ideologica. Una spaccatura che espone le sue criticità e fascinazioni in Passion, dove c’è l’ultima fabbrica in cui gli scioperanti sopravvissuti si battono per degli ormai indeterminati diritti, mentre nei teatri di posa affianco si celebra il trionfo estetizzante di un film concepito a tableaux vivants di celebri quadri. La curiosità, lo stupore, la commozione (quest’ultima per il martirio della Giovanna D’Arco di Dreyer in una connotazione poetica e umana e non spirituale o mistica) di Nana si scompongono nell’occhio ad altezza di pube di Maruschka Detmers, alias Prenom Carmen, prosciugata da qualsiasi tentazione melodrammatica nel suo essere indomito e indomato corpo di guerrigliera opposizione e affilata carnalità; ma soprattutto presenza che torna a ricordarci, nella sua identità pre narrativa, che il cinema è prima di tutto luce, suono, immagine (come disse Bernardo Bertolucci commentando il Leone d’oro assegnato al film durante il Festival di Venezia del 1983 in cui lui era presidente di giuria). E forse proprio nel finale di questo film è presente l’altra immagine-pensiero in forma di dialogo che risponde all’esigenza di precisione e verità di Nana in Vivre sa vie:

Carmen:”Come si chiama quando ci sono gli innocenti da una parte e i colpevoli dall’altra?”
Cameriere:” Non lo so, Mademoiselle”
Carmen: “Ma sì, è quando tutti hanno sciupato tutto, quando tutto è perduto, ma il giorno si leva e si può almeno respirare?”
Cameriere: “Questa si chiama l’aurora, Mademoiselle”

Ecco, se mai potessi esprimere una forma di riconoscenza nei confronti di un padre putativo, la troverei nella capacità di continuare a riconoscere una scintilla che illumina l’istante di un pensiero, di una parola, di una visione.

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