Una volta esaurito il corso, la presa diretta, l’attualità della guerra, bisognerebbe tornare ciclicamente ad osservare e a testimoniare le impronte che sono rimaste impresse su quel territorio e sui corpi che lo abitano. Uno dei meriti del denso, per la durata complessiva e per quella singola di ogni piano sequenza che lo compone, The Landscape and the Fury, diretto dalla regista svizzera Nicole Vögele, è proprio quello di riportare l’attenzione, sul piano etico della situazione che racconta e su quello percettivo della modalità di rappresentazione e fruizione, su qualcosa di dimenticato e rimosso. Che cosa accade lungo i 932 chilometri lungo i quali si estende il confine tra Croazia e Bosnia-Herzegovina, laddove furoreggiò, nel senso più distruttivo e nocivo del termine, la sanguinosa guerra civile nei primi anni ’90? Quei luoghi sono diventati dei passaggi e degli accessi che mettono in collegamento l’occidente con il resto del mondo, in particolare quei paesi del medio-oriente e dell’Africa devastati da altre guerre, e da carestie prodotte in gran parte proprio dallo sfruttamento colonialista occidentale. Bisogna però subito sgombrare il campo delle aspettative dal tipo di approccio utilizzato da Vögele: nessuna volontà di ricostruzione o spiegazione dei fatti, né cartelli esplicativi del dove e del quando ci troviamo. La soggettiva notturna in un bosco che apre il film, con un incitamento che richiama paura e desiderio, volontà e sopravvivenza (“Andiamo avanti”), è l’ouverture di un ‘esperienza sensoriale ed emotiva, che alterna accensioni sonore e visive, con momenti di stasi e di sospensione.

Il paesaggio del titolo, la sterminata e verdeggiante boscaglia intorno ai centri abitati e ai paesi croati e bosniaci, appare infatti statica, ancestrale, misteriosa. Letteralmente un groviglio di piante, alberi, lande da penetrare e forzare come un blocco che impedisce la transizione da un punto all’altro del pianeta. Vögele filma spesso il movimento dei gruppi multietnici che vi girano intorno come dei punti a distanza nello spazio, non specificandone la provenienza e la destinazione, Sono figure di profughi ed esuli i cui contorni sembrano sparire gradualmente in mezzo alle linee e alle forme di quelle terre che portano ancora sopra e sotto il loro suolo il peso specifico del conflitto genocida, dello sterminio indiscriminato. E tutto ciò viene visto con una limpidezza ed un rigore di sguardo che lascia attoniti: basta guardare la scena nella quale un gruppo di persone, tra le quali nuclei familiari con bambini in braccio, incappa in un prato dov’è indicata la presenza di quello che una volta era stato un campo di mine antiuomo, con la probabile esistenza di qualche dispositivo ancora funzionante. L’immagine richiama, con cosciente e inquietante ambiguità, quella di una gita domenicale in campagna, di una pratica e di un modus vivendi che è vicino, prossimo, attiguo alla zona protetta e privilegiata (fino a quando?) dell’ Europa della parte ovest. Le connotazioni figurative e le suggestioni simboliche sono però tante, diversificate, eterogenee, in rapporto alle diverse appartenenze geografiche delle genti che Vögele ha incontrato nel corso degli anni. Anche il tempo, pur non essendo indicato convenzionalmente da una data se non dalla scansione delle stagioni (dunque legato all’elemento naturale e organico), è incastonato nella presenza dello sguardo della regista, del suo essere stata sul posto, riuscendo a mantenere una distanza che non è freddezza o distacco, ma apertura ed accoglienza nei confronti di ciò che si è mostrato davanti ai suoi occhi, fino alla profonda comprensione di cosa ha osservando. Proprio stando nelle cadenzate e lente panoramiche sulle montagne boscose realizzate da Vögele ( con una definizione quasi impercettibile dello spostamento della mdp, tanto da poterne cogliere i respiri e le pause), potremmo ritornate alle riflessioni di Jean Marie Straub sull’atto del vedere che implica, appunto, un attesa, un posizionamento e uno stare nei pieni e nei vuoti di un fenomeno e della sua manifestazione.

A parte questa tensione etica ed estetica, che potrebbe ridursi al limite della contemplazione o distrarre in un sovrastante sentimento di sublime, la regia rimane ancorata all’elemento umano, non solo fattore residuale o contingente. La descrizione, pur sempre in uno spirito osservazionale, dei bambini che giocano d’estate nel “giardino” di un ‘abitazione improvvisata e resa viva dall’afflato/ respiro di un padre che gonfia per loro la piscina gonfiabile, è calda e toccante nella sua asciuttezza. Al contempo, le ombre proiettate sul muro dal fuoco, anch’esso improvvisato, preparato da un gruppo di migranti che cercano di scaldarsi nelle notti di nomadismo, restituiscono la fragilità e il tremolio di una (non) condizione. Riducendo all’osso il conflitto tra bisogno di radicamento e necessità di spostarsi in perenne continuazione, spesso anche reiterata e circolare a causa della cattura e del rinvio al confino da parte della polizia croata, Vögele arriva a riprendere gli oggetti identificativi di un individuo, le tracce del suo passaggio su questa e su quella terra. Scarpe, vestiti, giocattoli, utensili, fino alle carte d’identità che non hanno più nome e cognome ma solo l’impressione sbiadita di una foto. I resti di una frontiera barbara che rimandano all’immagini girate da Giovanni Cioni su un altro confine di smaterializzazione dei corpi e delle identità, quello di Ventimiglia tra Liguria e Francia, irruzione del reale nel visionario e metaforico multiverso spazio-temporale immaginato in Dal pianeta degli umani. La furia, altro richiamo del titolo, è l’urlo soffocato, picchiato, espulso fuori campo, né udibile né visibile, di chi continua a fuggire e di chi ci ha già provato, o anche degli autoctoni intrappolati, a suo tempo, nelle maglie di torture, esecuzioni, espropriazioni. Un vissuto che porta le donne che abitano in quei luoghi limitrofi a dirsi ad alta voce, tra di loro, di essere ancora capaci di passare dalla finestra un po’ di cibo e di acqua ad un uomo che ha fame, senza chiedersi a quale nazionalità corrisponda la lingua o il colore della pelle.
Lo squarcio domestico e quotidiano di una solidarietà che non consola dall’orrore remoto e di nuovo in agguato. Per chi ricorda un film preveggente di Michael Haneke, Il tempo dei lupi (2003), con l’umanità benestante e borghese catapultata nell’orrore assoluto di una guerra civile senza pietas, c’è la scena della richiesta di una madre in cerca di cibo per il figlio neonato piangente. A un certo punto, quel pianto infantile si trasforma nel lamento fuori campo della donna per la morte del bambino, In The Landscape and the Fury c’è un momento simile, ancora di notte e sempre nel bosco, quando una donna, probabilmente una ragazzina, invoca la salvezza della propria famiglia dalla quale non vuole separarsi, per salvarsi da un pericolo imminente.
La disperazione che c’è in quella supplica è il monito e il richiamo a mettersi in visione e in ascolto del substrato di sopraffazione e di ingiustizia che vibra e scalpita sotto la corteccia e la pelle di una natura incantata.
The Landscape and the Fury – Regia: Nicole Vögele; fotografia: Stefan Sick; montaggio: Hannes Bruun; musica: Alva Noto; produzione: Beauvoir Films, Aline Schmid & Adrian Blaser; origine: Svizzera, 2024; durata: 138 minuti.
